La figura del giusto e la rivincita dell’etica kantiana
Questi sono tempi bui. Di oscurantismo. Tempi in cui testimoniare significa sovraesporsi, oltrepassare un limite posto arbitrariamente e ideologicamente, essere considerati oggetto di strumentalizzazione politica. Tempi in cui lo stesso Capo dello Stato italiano rischia di sembrare un irresponsabile manipolatore per aver nominato come senatrice a vita Liliana Segre, una signora ebrea di ottantanove anni sopravvissuta alla Shoah. Anche le scuole che desiderano nutrirsi della testimonianza dei pochi “salvati” ancora in vita, come la senatrice Segre, corrono lo stesso rischio di essere considerate autrici di iniziative a dir poco inopportune, forse addirittura politicamente scorrette, in quanto possono alimentare il conflitto sociale.
Pertanto, non resta che tacere. Chi è nel giusto deve tacere. Chi desidera sapere deve contenere la sua sana domanda. Perché la giustizia e la verità possono offendere, possono risultare disfunzionali rispetto alla pace sociale e all’ordine pubblico. Possono suscitare reazioni violente, risvegliare l’aggressività degli scontenti e dei nostalgici.
Ma il compito della giustizia non è quello di conservare a tutti i costi la pace sociale e l’ordine costituito, soprattutto se la pace e l’ordine in questione si fondano sulla prevaricazione e sulla paura. Così come compito della giustizia non è quello di imporre un oblio che normalizzi e rassereni, facendo sembrare tutti buoni e nel giusto. Non si dimostra di essere uomini e donne di mondo confondendo il realismo con il conformismo o con il silenzio. Soprattutto quando la realtà sociale mostra palesi eccessi e incongruenze. Bisogna piuttosto aprirsi all’idea che un’etica come quella kantiana, che prescrive il “dovere-per-il-dovere”, ovvero il dovere incondizionato, possa essere considerata realistica, addirittura più reale delle minacce, del conflitto, della violenza.
La figura del giusto, celebrata nella tradizione ebraica, attesta il realismo dell’etica kantiana, ovvero il fatto che la virtù della giustizia e le passioni che la sorreggono − il coraggio e l’indignazione − superano le ideologie, le appartenenze politiche, gli interessi individuali o di casta, gli opportunismi di varia natura.
Vi sono momenti in cui il dovere kantiano coincide con il caposaldo hegeliano che afferma che «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale» (Lineamenti di filosofia del diritto, 1821). Ciò significa che essere e dover essere coincidono e che tra Kant e Hegel si scopre una corrispondenza segreta e sorprendente.
Per rendere più concreto il discorso che si sta cercando di delineare, si può provare a riflettere sull’ultimo film di Roman Polanski, L’ufficiale e la spia (2019). La vicenda è passata alla storia col nome di “affaire” Dreyfus, e racconta uno dei momenti cruciali della crisi della Terza Repubblica francese nel tardo Ottocento. Nel 1894 il capitano di artiglieria Alfred Dreyfus viene accusato di essere una spia al soldo dei servizi segreti tedeschi. Non è di poco conto il fatto che il capitano Dreyfus sia un ebreo, e per la precisione l’unico ufficiale ebreo nell’esercito francese, in un periodo in cui l’antisemitismo è particolarmente acceso. Il 5 gennaio del 1895 Dreyfus viene degradato durante una solenne cerimonia e condannato ai lavori forzati nell’isola del Diavolo, uno dei luoghi più isolati del mondo.
È a questo punto che l’occhio del regista si sposta sulla figura del capitano Georges Picquart, il quale diviene capo dei servizi segreti francesi col grado di tenente colonnello. Il suo compito dovrebbe essere quello di trovare altre prove a carico di Dreyfus, data la debolezza di quelle con le quali l’ex ufficiale è stato sommariamente condannato senza processo, ma in realtà l’integerrimo Picquart scoprirà che la lettera (il famoso “bordereau”) con la quale Dreyfus avrebbe comunicato dei segreti militari ai tedeschi è un falso, il cui artefice è il capitano Esterhazy, un nobile oppresso dai debiti di gioco, che per denaro agisce senza scrupoli.
Picquart non è un uomo irreprensibile nella vita privata, inoltre condivide l’ideologia razzista, è un sostenitore della superiorità della razza eletta. Tuttavia, quando si trova ad indagare sul caso Dreyfus, non può sottrarsi al rispetto della verità dei fatti, sebbene non nutra alcuna simpatia per l’ebreo in questione, né umana né ideologica. Potrebbe opportunisticamente sacrificare il principio della verità in nome dell’esercito, al quale ha dedicato la sua vita, e della sua gerarchia, come gli ordinano i suoi superiori. Ma la virtù della giustizia prende il sopravvento e lo obbliga a lottare per l’affermazione della verità. Ecco come si presenta la giustizia: non si può ignorare la verità e lasciare che un innocente paghi per un reato che non ha commesso.
Polanski segue scrupolosamente la cronologia dei fatti e narra la vicenda con una tecnica quasi “naturalistica”, affine a quella di Émile Zola, altro illustre personaggio che ebbe un ruolo decisivo nello svolgimento dei fatti. La caparbietà e l’incorruttibilità di Picquart avrà la meglio, nonostante i depistaggi e la forza aggressiva degli avversari, e giustizia sarà fatta, sebbene dopo 12 anni, nel 1906, quando Alfred Dreyfus verrà riconosciuto innocente e reintegrato nell’esercito.
In conclusione, la domanda che ci si può porre è la seguente: la giustizia è compatibile con la realtà e con il realismo? La risposta non può che essere affermativa. Infatti, il realismo può evitare il cinismo e la brutalità soltanto attraverso la giustizia. La giustizia si configura, quindi, come il giusto mezzo, per l’appunto, tra il realismo e il cinismo. Occorre, pertanto, agire in nome della giustizia, con giustizia e per la giustizia, ovvero si deve operare avendo un’idea della giustizia (sapere platonico), incarnando la giustizia (morale kantiana), in vista dell’affermazione della giustizia nella società e nel mondo (eticità hegeliana). Ciò significa andare al di là dei propri interessi e delle proprie convinzioni o ideologie. Questo è possibile ed è realizzabile, talvolta con pieno successo, se si agisce con impegno, dedizione, fatica e sacrificio. Ma il giusto mette in gioco la sua vita, rischia tutto se stesso per la giustizia. In ciò sta la sua grandezza. Da Georges Picquart a Ilaria Cucchi. D’altra parte, la sicurezza della società e del mondo intero è nelle mani dei giusti e di coloro che ne sostengono l’opera.
Giancarlo Pillittu