La verità inafferrabile di “Memorie di un assassino”
Finalmente nelle sale italiane il secondo grandioso film di Bong Joon-ho
Grazie al clamoroso successo ottenuto da Parasite agli Oscar 2020, Academy Two ha potuto distribuire per la prima volta in Italia il capolavoro firmato nel 2003 da Bon Joon-ho, Memorie di un assassino, nelle sale dal 13 febbraio. Il secondo film del regista sudcoreano ne segnò a pieno titolo l’ingresso nella storia del cinema, diventando una delle produzioni cinematografiche più importanti di inizio millennio. Anche Cagliari si inserisce nella distribuzione nazionale grazie alle proiezioni del Cinema Spazio Odissea (viale Trieste, 84).
Adattamento cinematografico dell’opera teatrale Come to See Me di Kim Kwang-lim, il film è basato su una storia vera che, durante la Quinta Repubblica di Chun Doo-hwan (1979-1987), scosse l’intera Corea del Sud e soprattutto la piccola provincia di Hwaseong: si tratta degli omicidi commessi dal primo serial killer coreano conosciuto. Le vittime, una decina, ritrovate tra il 1986 e il 1991, venivano legate, violentate e uccise. Memorie di un assassino tratta proprio dei primi ritrovamenti e delle indagini della disorganizzata polizia locale, nonché della memoria collettiva che questi crimini hanno lasciato nel paese, ai tempi dei fatti scosso da proteste e conflitti contro la dittatura.
Sebbene lo sfondo politico sia appena accennato nella narrazione, il mal attrezzato e grottesco distretto di polizia provinciale rappresenta la disorganizzazione generale del Paese. L’investigatore Park Du-man (uno straordinario Kim Sang-kyung) e il collega Cho Yong-gu si affidano a metodi quali l’istinto, calci e pugni ai sospettati e false prove pur di chiudere il caso. La critica ai metodi della polizia dell’epoca non è didascalica, ma segnata da una gran quantità di tempi comici che ne sottolineano le ridicole modalità investigative; risulta inoltre ben visibile la sfiducia della popolazione nei confronti delle istituzioni. Una popolazione colpita dall’isteria per i fatti in corso, ma terribilmente umana e mostrata nel grigiore della vita provinciale grazie all’azzeccatissima fotografia desaturata di Kim Hyung-ku.
Le sorti della vicenda paiono risollevarsi grazie all’arrivo di un investigatore da Seul, Seo Tae-yun (Kim Sang-kyung), che da subito risulta essere l’opposto di Park. Proveniente da una città su cui già all’epoca si concentravano tutti gli sforzi del governo affinché diventasse l’avanguardia moderna del Paese, Seo utilizza metodi d’indagine molto più accurati e scientifici. Se Park si affida al suo istinto sostenendo di poter riconoscere un criminale a colpo d’occhio guardandolo in volto, per Seo sono i documenti a non mentire mai e spesso nel film lo vediamo consultarli isolato dal resto del distretto. Due metodi differenti, uno antiquato e l’altro innovativo, adoperati da due personalità opposte ma interessate allo stesso identico fine: l’inafferrabile verità, il tentativo spasmodico di arrivare a tutti i costi a scoprire la vera identità dell’assassino. Proprio l’inadeguatezza umana davanti a una verità che si nasconde, così come i sentimenti che scaturiscono da questa incapacità, sono il vero tema portante di tutto il film. Sebbene l’investigatore Seo arrivi a importanti scoperte, ne percepiamo l’inevitabile senso d’impotenza e la frustrazione, sintomo di impazienza, davanti all’accumularsi delle vittime nelle notti di pioggia.
Già da questo film, Bong Joon-ho si dimostra un geniale sceneggiatore capace di sovvertire un genere cinematografico consolidato come il poliziesco, grazie a tempi comici e a elementi grotteschi che torneranno in tanti altri suoi lavori e soprattutto nel suo ultimo Parasite. Entrambi i film sono interpuntati da rallenty capaci di sottolineare l’assurdità delle vicende, così come in entrambi non mancano vertici di tensione tipici del genere thriller. Inoltre, sebbene non raffinata quanto quella del suo ultimo capolavoro, già in Memorie di un assassino la regia di Joon-ho ha dei momenti eccellenti. Lo vediamo soprattutto dalla capacità di concentrare la visione dello spettatore sui personaggi che il regista desidera mettere in evidenza nelle singole inquadrature. Ciò non avviene tramite un classico susseguirsi di close up, ma con metodi molto più raffinati legati alla luce, allo sguardo degli attori e al gioco coi vari piani delle inquadrature; ogni piano è legato a vicende interiori separate per quanto coesistenti nello stesso spazio diegetico.
La palette cromatica spenta indica il senso di amarezza che permea la narrazione e solo alla fine si riaccende di colori saturi, caldi e carichi di speranza; la speranza che tra gli spettatori destinatari degli intensi sguardi che Kim Sang-kyung rivolge in camera ci potesse essere anche l’assassino. Infatti, quando il film fu proiettato in sala non si conosceva ancora l’identità del killer, che solo nel 2019 si è scoperto essere quella di Lee Choon-jae, già condannato all’ergastolo dal 1994 per l’uccisione della cognata.
Finalmente questo caposaldo della storia del cinema è ora fruibile sul grande schermo anche nel nostro Paese. Si auspica che tale decisione porti a programmazioni cinematografiche sempre più aperte a mondi apparentemente lontani, come l’Estremo Oriente, dove però grandi registi come Bong Joon-ho esprimono, grazie al cinema, emozioni universali capaci di arrivare in tutto il mondo.
Marta Melis