Benessere digitale e salute mentale: il diritto alla disconnessione
“Come stai? Tutto a posto? Che fine avevi fatto?”
Sono queste le domande che mi sono arrivate in privato, soprattutto su Instagram Direct, non appena il mio profilo è tornato attivo. Alcuni mi hanno inviato dei semplici cuori, altri mi hanno dato il bentornato sotto il primo post pubblicato: un banalissimo selfie per segnalare a tutti, anche a chi non ci aveva fatto troppo caso, che ero tornato sui social. Un po’ più in carne (ma va bene così!) ma sempre io.
La verità è che non è la prima volta che decido di disconnettermi, disattivando tutti i social per poi riattivarli un mese dopo. Di solito lo faccio quando mi sento sovraccarico di lavoro e di studio, e a questo si aggiunge lo stress e il nervosismo che certi post, notizie e reazioni violente mi provocano. Quando tutti vogliono dire la loro senza lasciare spazio all’approfondimento, a opinioni diverse e a visioni multiple, sento qualcosa scattare dentro di me: un forte nervosismo che incide sulla psiche, segnale che probabilmente è giunto il momento di disconnettermi.
Negli ultimi anni, con la costante innovazione digitale, si è discusso molto del potere dell’essere always on (costantemente connessi) e del conseguente diritto alla disconnessione. Già nel 2014, il sociologo francese Francis Jauréguiberry, docente presso l’Université de Pau et des Pays de l’Adour, sosteneva questo diritto, illustrandone i rischi. Nel suo studio, identificava quattro tipologie di disconnessione:
– Disconnessione involontaria: avviene automaticamente, come un “salto del contatore,” ed è spesso accompagnata da burnout, depressione e altre patologie psichiche e fisiche. Nei casi estremi, chi si disconnette involontariamente avverte una profonda inadeguatezza di fronte alla mole di email, notifiche, contenuti e post da seguire, soprattutto quando tutto ciò è imposto dal lavoro.
– Disconnessione volontaria: è quella che ho scelto per i social. Questo tipo di disconnessione avviene senza reazioni estreme ed è attuata volontariamente per non scivolare verso quella spirale che potrebbe portare alla disconnessione involontaria. In questo mese senza social, per esempio, ho trascorso del tempo al parco con un libro, senza cellulare. Queste disconnessioni sono solitamente brevi e parziali, utili per ricalibrare la mente.
– Disconnessione professionale: esistono professioni che rendono la disconnessione impossibile, come social media manager, copywriter, giornalisti e articolisti, che devono navigare costantemente per trovare fonti, contatti, ecc. Tuttavia, molte professioni che non richiederebbero affatto il digitale stanno diventando sempre più digitalizzate, e la tele-disponibilità rischia di invadere il privato, spingendo istituzioni come l’Unione Europea a discutere il diritto alla disconnessione.
– Disconnessione privata: una disconnessione di tipo esistenziale, che arriva quando ci rendiamo conto che le nostre attività online (postare, commentare, discutere o guardare video divertenti) non sono altro che un riempitivo per non pensare alla nostra esistenza. Questo tipo di disconnessione solitamente segue una crisi esistenziale, quel momento in cui ci rendiamo conto della brevità della vita e dell’inutilità di certi comportamenti digitali.
Disconnettersi non è semplice. Significa, in un certo senso, rinunciare a esistere per gli altri. Facebook, ad esempio, è un vasto mare di persone che cercano visibilità. Già nel 2012, uno studio di Susan Weinschenk rivelava la potenza delle notifiche, capaci di scatenare il rilascio di dopamina, proprio come una droga. In un mondo in cui molti giovani non conoscono nemmeno il tasto “Log out” – la Generazione Z, per esempio; da non confondere con la generazione dei Millennials – ecco che iniziano, allora, a manifestarsi delle ripercussioni sociali: secondo alcuni studi, tra cui uno di un gruppo di antropologi americani, la GenZ risulta meno empatica e matura rispetto ai Millennials degli anni ’80 e ’90. Essa, infatti, sempre secondo questo studio americano parrebbe più superficiale e, alle volte, più violenta, trovando meno piacere nelle relazioni sociali “dal vivo” e manifestando una maggiore predisposizione alla depressione.
Questi atteggiamenti, col tempo, potrebbero avere contraccolpi non solo a livello individuale, ma anche sull’intera società, che si ammala collettivamente sempre di più. Ma la verità è che siamo costantemente in relazione con i social media: ci fanno ridere, piangere e soffrire al pari di una relazione sentimentale. Ed è forse per questo allora che, come nelle relazioni amorose, è salutare prendersi una pausa di riflessione o innescare una crisi quando le cose non vanno più per il verso giusto e a rimetterci è la salute mentale.
Maurizio Liscia