Alessandra Melis, giovane ricercatrice asseminese, racconta il suo amore per la “Terra di Mezzo”
di Carmen Corda
Alessandra è una giovane ricercatrice asseminese, docente di lingua cinese, che in questa intervista racconta il percorso personale e accademico che l’ha portata nella lontana Cina.
Alessandra, il corso di laurea in Scienze Politiche è interdisciplinare e ti porta a contatto con molte realtà. Perché la Cina e perché la lingua cinese, da cosa nasce questa tua scelta?
“È stata una scelta del tutto casuale, partita dal “Salone degli studenti liceali” che l’Università organizza ogni anno per la presentazione dei corsi. Alla presentazione di Scienze Politiche era intervenuto il professor Emilio Bottazzi, all’epoca docente di cinese e mio primo maestro. L’idea iniziale era iscrivermi a Giurisprudenza ma il professore mi aveva così tanto colpito, e soprattutto incuriosito, da farmi cambiare idea. Mi sono iscritta a Scienze Politiche e al secondo anno, al momento un cui dovevo scegliere la seconda lingua – pensa – avevo fatto domanda per l’arabo ma non c’erano posti: allora è destino – ho pensato – e ho iniziato a studiare cinese. Sono rimasta affascinata soprattutto dai racconti di viaggio e non ho più avuto dubbi: volevo conoscere la Cina”.
Il primo viaggio in Cina?
“A 21 anni, per la disperazione dei miei genitori! Il primo viaggio, dall’altra parte del mondo. Anche perché le comunicazioni non erano facili come oggi, per sentirli dovevo avere due schede e inserire nel telefono codici internazionali interminabili. Al mio rientro mi hanno trovato dimagritissima, ma solo perché ancora non avevo imparato a ordinare per bene nei ristoranti!”.
Ecco, vogliamo dire a tutti che in Cina si mangia bene?
“Si mangia benissimo. Nulla a che vedere con le proposte che siamo abituati a vedere nei ristoranti cinesi qui da noi: cucina per lo più salutare, fritto quasi assente e sapori mixati che non ti aspetti. Le porzioni di verdura sovrastano quelle di carne e pesce e il cereale di base è il riso, quindi salutare, sì“.
Attualmente insegni cinese nell’Aula Confucio. Spieghiamo intanto cos’è.
“L’Aula Confucio di Cagliari dipende dall’Istituto Confucio di Roma e propone corsi di lingua e cultura cinese, che attiviamo sia nella nostra Aula sia nelle scuole, soprattutto superiori. Il fine è quello di promuovere la cultura cinese con film, conferenze, attività ludiche e molto altro”.
Chi si iscrive ai vostri corsi?
“Un’utenza piuttosto eterogenea: molti studenti, soprattutto della facoltà di lingue, perché lì manca l’insegnamento del cinese, molti lavoratori, dall’agente di polizia al contabile, all’amministrativo dell’Università stessa“.
Quindi per motivi prevalentemente lavorativi, attuali o futuri?
“No, ci sono anche i curiosi e basta. E stanno anche raggiungendo livelli elevatissimi di conoscenza della lingua, forse proprio perché mossi più dal piacere che dall’obbligo o dalla necessità. Al Centro Linguistico ho avuto uno studente di quasi 70 anni che poi ha continuato in Aula Confucio raggiungendo il livello B2! Ha dato grandi soddisfazioni“.
Oggi è indispensabile conoscere il cinese?
“Conoscere la lingua cinese ti apre più porte rispetto all’interloquire con i cittadini cinesi in lingua inglese. Conoscere il cinese significa conoscere la cultura cinese: quando si studiano i caratteri si comprende cosa c’è dietro, tutto l’aspetto culturale da cui nascono. Quindi per fare business ma anche per stringere amicizie, per far nascere amori, è necessario conoscere quella cultura, così lontana e così diversa dalla nostra. C’è un rispetto per l’anziano che noi avevamo ma non abbiamo più, il rispetto per il “maestro”, la pietà filiale verso i genitori, ai quali si deve tutto. Aspetti che ritroviamo nei caratteri della lingua“.
La pietà filiale, principio cardine del confucianesimo, è ancora molto sentita? E in cosa consiste esattamente?
“Si tratta di un figlio che deve tutto ai genitori: la vita, la moralità, l’insieme degli insegnamenti e non può esimersi dal dimostrarlo. Sì, è ancora molto sentita e leggo ogni giorno nei giornali cinesi notizie riconducibili alla pietà filiale. Ho letto di un figlio che è stato lontano da casa per 4 anni per studiare e come dimostrazione della sua pietà filiale è tornato a casa in bicicletta, da Pechino alla casa a Natale, in un villaggio rurale. Moltissimi chilometri per un regalo inaspettato per il Capodanno cinese“.
Quindi un gesto di gratitudine e di riconoscenza.
“Gratitudine e riconoscenza completa. Mi viene in mente un’altra notizia: qualche giorno fa una madre si è tolta la vita, non potendo pagare la dote richiesta per il matrimonio del figlio, si è suicidata. Il figlio si sentiva schiacciato dal senso di colpa perché – diceva nell’articolo – di mogli se ne possono trovare tante, ma di madri no. Anche questo gesto eclatante fa parte di una cultura, la cultura della vergogna, il non riuscire ad arrivare a certi livelli, in questo caso economici”.
Arriviamo alla tua prima monografia che racchiude parte del tuo lavoro di ricerca per il Dottorato. Racconti l’evoluzione della famiglia cinese dall’età imperiale ad oggi. Che cosa è cambiato?
“Finalmente la famiglia cinese non è più patriarcale, patrilocale e patrilineare. La figura dell’uomo non è più preminente su quella femminile, sia essa moglie o figlia. Non è più fortemente misogina, le donne hanno più potere in famiglia, hanno fatto sentire la loro voce, anche opponendosi ai matrimoni combinati che erano la regola fino ai primi anni del ‘900. Hanno più diritti nel divorzio, nella divisione dei beni e soprattutto nell’affidamento dei figli, da cui prima erano escluse. C’è più parità tra i sessi e in questo la famiglia cinese si è modernizzata“.
Quindi il matrimonio ha assunto una dimensione privata, non è più un “affare familiare”.
“Privata ma anche pubblica perché il Partito, da quando è al potere (1949) ha regolamentato il matrimonio: le coppie devono sposarsi nell’ufficio pubblico competente territorialmente e il Partito è sempre “ospite” del rito ed è anche “parente stretto” che prende decisioni per la coppia che dovrebbero essere private. Parlo della “politica del figlio unico”. Dagli anni ’70 i cinesi non hanno più potuto decidere quanti figli mettere al mondo perché il Partito, preoccupato per una natalità spaventosa, è intervenuto per tenerla a freno. E lo ha fatto con una legge in Occidente considerata terribile, ma che i cinesi hanno vissuto con molto pragmatismo, come tutto e come sempre del resto”.
Il noto pragmatismo cinese.
“Sì. I costi per un figlio erano e sono altissimi e questo è un freno importante per la natalità, più della legge stessa. Le multe poi erano talmente salate che ha funzionato, numericamente, e ha funzionato anche in un altro senso, rendendo più cosciente la coppia: erano tanti gli abusi dei funzionari incaricati dei controlli e i cinesi hanno cominciato, consapevolmente, a denunciare, e nelle nuove leggi sono stati introdotti dei controlli e pene per evitare i soprusi. Con la “politica del secondo figlio” c’è stato poi un baby-boom, previsto dal Partito“.
Perché questa apertura al secondo figlio?
“Perché in alcune città non si facevano più figli. Adesso le coppie decidono di non far figli, ci sono le cosiddette famiglie dink che non sono interessate, viaggiano, si divertono come coppia ma non fanno figli. Nelle città il controllo delle nascite ha funzionato fin troppo bene, il problema era nelle campagne perché un figlio significava anche manodopera. Ci sono più Cine, le zone rurali e le grandi metropoli, ma anche le zone di montagna e le zone etniche che hanno una regolamentazione ancora diversa. Più Cine a più velocità. Non sono solita fare complimenti al Partito cinese, anzi…ma quella della natalità era una questione spinosa e hanno saputo gestirla in un periodo chiave, quello della crescita“.
Stiamo parlando del dopo-Mao.
“Sì degli anni di Deng XiaoPing, dal 1978 in poi. C’era anche una fiducia diversa, più fiducia, si stava crescendo, c’era apertura, c’erano progetti. La Cina si è resa più visibile superando gli stereotipi: era una Cina più moderna che poi è esplosa. Io ho fatto l’Università negli anni del boom cinese e mi dicevano “brava, hai fatto la scelta giusta”.
Quali sono secondo te gli aspetti della millenaria cultura cinese di più difficile comprensione per un occidentale? Quali sono le distanze culturali che si avvertono subito?
“C’è una diversa concezione della “faccia”, del “perdere la faccia”. Mi spiego meglio: c’è un diverso approccio nella risoluzione del conflitto, non si cerca mai uno scontro diretto, c’è una costante ricerca di equilibrio. C’è un fluire costante, come in fiume in cui l’acqua scorre. Noi siamo molto impazienti, loro invece sanno aspettare, muovendosi. Per esempio, in cinese non esistono le parole “sì” e “no”, la negazione e l’affermazione si esprimono in un altro modo e questo dice molto di un popolo. E il “forse” in cinese significa più no che sì”.
Questo denota cosa, indecisione?
“No, denota imbarazzo a dirti subito di no. Non si vuole offendere l’interlocutore negando qualcosa, proprio perché si evita il conflitto aperto, si cerca sempre il compromesso. Nelle strategie di business il “forse” che noi interpretiamo positivamente, è quasi sempre negativo. Questo ha radici storiche: la Cina non è mai stata una nazione conquistatrice e Cina in cinese si dice Zhonguo, il “Paese di Mezzo”, centrale. La Cina si è sempre sentita eticamente (non etnicamente) superiore: al centro del mondo, con il suo imperatore, e non ha mai guardato oltre la Grande Muraglia, dove c’erano i “barbari”. Questo atteggiamento è stato spesso banalmente letto come superbia, ma non lo era; era un prendere atto del fatto che non sia aveva bisogno d’altro. Oggi non è così, la Cina conquista economicamente parte di continenti come l’Africa, fa grandi investimenti in sud America e finanzia i consumi americani. Non mostra, tutto sommato, la sua supremazia economica, non la fa ancora pesare. E questo è tipico di una cultura“.
La supremazia etica invece è ancora sentita?
“Sì, ma questo non significa che non ci sia apertura verso l’esterno. Oggi i cinesi viaggiano molto di più, si formano spesso all’estero, ma poi si torna a casa. Questa cosa riguarda soprattutto i migranti più anziani, quelli delle prime generazioni di immigrati”.
Ecco, vogliamo sradicare questa leggenda del “non ne muore nemmeno uno” e “i cinesi che fine fanno”? (Ridiamo). Si tratta di una questione culturale profonda.
“Si può vivere qua per lavoro, per altri motivi, ma poi si torna in Cina per vivere lì gli ultimi anni.
Diverso è per i più giovani, che hanno vissuto più qui che lì e che si sentono più italiani che cinesi o entrambe le cose. I cinesi muoiono come noi!”.
Lo sospettavo! La comunità cinese dà l’idea di essere molto chiusa, un po’ diffidente. È così?
“Penso sia soprattutto per un problema linguistico, infatti i più giovani che parlano bene l’italiano, fanno spesso da ponte. Per non “perdere la faccia” stanno spesso in silenzio per paura di sbagliare (mi vengono in mente le riunioni scolastiche). Sono in realtà una comunità molto generosa, fanno tanta beneficienza silenziosa, per esempio in occasione delle alluvioni o di raccolte benefiche come quelle di Natale“.
Parlando di barriere linguistiche “al contrario”, i più piccoli non perdono un po’ i contatti con la lingua madre?
“Assolutamente. Ci sono delle opzioni: o si lascia che i piccoli facciano una parte del percorso scolastico in Cina, per poi tornare dopo le elementari, oppure si comincia la formazione qui, ma le famiglie vogliono che imparino la lingua cinese. Naturalmente il problema è la lingua scritta, perché il parlato lo sentono quotidianamente a casa e si tratta di dialetto, quello dello Zhejian che è la regione dalla quale provengono molti di loro, una zona di commercio vivo. I bambini possono seguire una scuola organizzata dalla comunità, fanno lezione con un’insegnante cinese, la domenica. Vengono da tutta la Sardegna a Cagliari, per questo. Si tratta ovviamente di una scelta familiare”.
Puoi dirti contenta della strada intrapresa?
“Sì, magari col senno di poi sarei rimasta un anno in più lì, posticipando il dottorato a Cagliari. Ho conosciuto persone straordinarie in Cina, anche straniere. Ho vissuto sempre in grandi metropoli, Pechino e Shanghai, ed è stata una bella esperienza, molto divertente, che mi ha portato poi a farne di altre. Ho fatto da interprete all’Expo e questo mi fa sorridere pensando a me studentessa nel ’99. Chi l’avrebbe mai detto!”.
Grazie Alessandra, ad maiora.
Vulcano n° 94