La Costituzione. La riforma. Il referendum. Il dopo.
di Luigi Palmas
La fine della guerra fredda, la caduta dei blocchi ideologici, la globalizzazione della finanza spregiudicata e dell’economia asociale e l’idolatria del “mercato” generano il riemergere dei fondamentalismi religiosi violenti, di populismi distruttivi e di pragmatismi senza armonia dei governi nazionali. L’Italia è immersa in questa crisi mondiale con due problemi in più: il superamento dei partiti garanti della Costituzione e la liquidazione di una forte e vasta economia pubblica. La questione morale, che preesisteva e che continuerà a esistere ( il presente è più grave del passato), viene utilizzata per giustificare i nuovi conflitti fuori controllo: una sinistra di opposizione contro una sinistra di governo, la sinistra cattolica contro il centrismo tradizionale, la destra contro il loro passato, il capitalismo assistito contro il capitalismo competitivo, il lavoro garantito contro il precariato. In questo scenario anche il tema della riforma costituzionale richiede una soluzione diversa da quella avanzata dai riformisti socialisti e cattolici degli anni ’70 e ’80. Non si tratta di rendere efficiente l’ordinamento dello Stato Unitario fondato sul lavoro e presidiato dalla sovranità popolare, ma di verificare l’esistenza di una maturazione attuale, sociale e politica per dare corpo ad una nuova Costituzione che garantisca l’autonomia politica dello Stato in un processo controllato di erosione di sovranità e di integrazione in un sistema sociale diverso ma non contradditorio con la parte prima della nostra Carta. Si preferì la strada delle leggi maggioritarie elettorali e della supina acquiescenza al vincolo estero, l’Europa. Le leggi elettorali furono concepite per rendere stabili i governi, così precari in un perverso gioco di scomposizione e ricomposizione dei partiti politici. Fu una illusione: non vi furono governi stabili, mentre si gettavano le basi per un cambiamento indolore della struttura costituzionale italiana: si passava dalla Costituzione rigida alla Costituzione flessibile (come fu lo Statuto Albertino).
Nel 2008 se ne accorse anche il Presidente emerito della Repubblica Scalfaro, che, insieme con altri parlamentari, presentò un disegno di legge Costituzionale al Senato per la modifica dei quorum di garanzia. Nella relazione alla legge fu detto: “Nell’ultimo quindicennio la Costituzione si è indebolita, non con l’adesione della comunità italiana alla Carta fondamentale, ma con la garanzia della sua rigidità: è diventato cioè troppo facile cambiare le norme costituzionali da quando è stato abbandonato il sistema elettorale proporzionale che aveva retto la nostra vita politica durante quarantasette anni e da quando si è attenuata nelle forze politiche la convinzione che in ogni caso alle riforme costituzionali si dovesse procedere solo sulla base di larghe convergenze. Le nuove leggi per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sia quelle a prevalenza maggioritaria approvate dopo il referendum del 1993 sia quelle proporzionali con premio di maggioranza adottate nel 2005, consentono a maggioranze relative di elettori di diventare maggioranze assolute dei deputati e dei senatori; pertanto la quota di voti parlamentari necessari per l’approvazione in seconda deliberazione di riforme costituzionali (metà più uno degli eletti) è, per così dire, “a portata di mano” e costituisce di per sé una forte tentazione a cambiare le regole e i principi della Costituzione secondo le opinioni o, peggio, le convenienze dei vincitori nell’ultima competizione elettorale (…).
Come è noto, il carattere rigido della Carta Costituzionale rappresenta, insieme all’indipendenza degli organi di garanzia (Presidente della Repubblica e Corte costituzionale), il presidio più robusto per evitare che la Costituzione diventi uno strumento della politica della coalizione vincitrice nelle elezioni politiche. In quasi tutte le grandi democrazie si è ritenuto e si ritiene che le leggi di revisione costituzionale debbano essere il prodotto di larghe intese fra maggioranza e opposizione. E’ una conseguenza coerente dell’esigenza di stabilità, del ruolo di garanzia dei diritti e delle libertà di tutti ( e dunque, anche delle minoranze) che è proprio delle Costituzioni democratiche. Un Paese non può vivere e crescere se le regole fondamentali della convivenza comune durano una sola legislatura e mutano a ogni cambio di maggioranza. L’erosione della stabilità costituzionale, registrata in Italia negli ultimi anni, rappresenta uno degli elementi del clima generale di insicurezza e di smarrimento che prevale nel Paese e uno dei fattori della sua crisi. Recuperare il valore della stabilità costituzionale (della certezza delle regole, delle libertà e dei diritti) e ristabilire il principio della supremazia e della rigidità della Costituzione appare oggi un’esigenza nazionale, uno dei pochi grandi obiettivi che dovrebbero essere condivisi da tutti, indipendentemente dalle collocazioni politiche”.
All’inizio degli anni ’90 il vincolo estero, l’Europa, fu utilizzato dalle elites per smontare il sistema pubblico dell’economia. L’intuizione, da Andreatta a Ciampi e poi dai loro allievi e seguaci, Monti, Draghi, Padoan e altri, fu ed è disastrosa, perché non si fece e non si fa pulizia delle incrostazioni parassitarie del sistema pubblico (banche, industria e servizi) ma si distrusse e si continua a distruggere uno straordinario strumento di difesa della vita nazionale in situazioni di crisi. Citiamo il Prof. Guarino, giurista: “Le direzioni di marcia dell’Unione e degli Stati membri sono segnate. Il settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, è l’ economia. Gli istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di ciascun Paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli indirizzi prestabiliti. Non si può abbattere il proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali, non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto”.
Questa riforma, proposta dal Governo e non da un’ Assemblea Costituente, bocciata dalla maggioranza dei cittadini italiani che hanno votato NO nel Referendum consultivo previsto dalla Costituzione, si è rivelata inutile, dannosa e fuorviante. Frutto di una giovanile inesperienza politica? O altro? Sarebbe grave se fosse una coda del “tintinnio” di sciabola del gelliano “Piano di Rinascita” e della Three Eyes. E’ inutile perché la realtà di oggi ( surriscaldamento del pianeta, migrazione e crollo demografico, terrorismo, guerre locali senza fine e disastro economico e rapina globale) richiedono maggiore partecipazione diretta, più fatica nell’organizzare il consenso e minore esibizionismo risolutivo. In Italia la semplificazione del processo legislativo, la eliminazione del parlamentarismo e le garanzie per l’opposizione, non hanno bisogno di modifiche costituzionali; è sufficiente intervenire sul Regolamento della Camera. La Camera dei Deputati ha il Regolamento consociativo del 1971 redatto da Andreotti e Ingrao (Capigruppo DC e PCI). E’ inoltre inutile per un’altra decisiva ragione. L’80% delle nostre leggi è di derivazione comunitaria. La normativa comunitaria non solo prevale sulla legislazione nazionale, ma è sottratta al giudizio di costituzionalità della Corte Costituzionale perché è coperta dall’art.11 della Costituzione e gode della franchigia referendaria perché i Trattati sono esclusi dal Referendum. La riforma di Renzi-Boschi e di altri, Jp. Morgan?, Michael Leeden? Yoram Gutgeld?, etc…, è stata considerata dannosa perché fa passare un principio ad alto rischio; le modifiche costituzionali su iniziativa del governo con la procedura dell’art.138. E’ questo vulnus che, incrociandosi con una legge elettorale maggioritaria, l’Italicum, rompe la rigidità del nostro sistema costituzionale, scardinano la difesa della prima parte della Costituzione.
Le conquiste di libertà e di uguaglianza non sono mai definitivi. Il tanto gridato “abolito bicameralismo” è stato considerato da molti costituzionalisti una truffa. Una truffa perché il Senato non solo sarebbe sopravvissuto ma avrebbe avuto competenza legislativa bicamerale piena in materia di tempi e di metodi dell’appartenenza dell’Italia all’UE. Non solo! Fatalmente il Senato avrebbe avuto per la sua origine e per la sua naturale composizione, natura anarchica e comunque asimmetrica rispetto alla “maggioranza” che si pensava di raggiungere nella Camera dei deputati per via di legge elettorale. Così si sarebbe avuto nel nostro Paese un altro unicum: “una Camera politica con origine locale ma con competenza, insieme, sovranazionale ed irrazionale, così da produrre l’effetto opposto a quello cui la riforma sarebbe mirata. Insomma, non la fine della confusione, ma una confusione senza fine”. Il 3 dicembre del 1947 si votarono due testi che dimostrarono che nell’ultima fase della Costituente con il mutato clima internazionale, prendeva forza una forte e vecchia destra. Si votò prima l’art.130 bis presentato dall’on. Laconi e sostenuto da PCI – PSI e sinistra sociale DC. “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono o garantiscono i diritti di libertà e del lavoro, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”.
La proposta fu bocciata con 191 voti contro 116. L’art. 139 (immodificabilità della forma repubblicana) passò con 274 voti favorevoli, 77 contrari e 205 assenti. La riforma del Governo Renzi è stata considerata fuorviante perché ha utilizzato un linguaggio populista allo scopo di evitare il passaggio stretto della crisi costituzionale dello Stato-nazione. Gli argomenti di Renzi, considerati da molti privi di consistenza giuridica e politica, sono stati:
a) la riduzione del costo della politica (confondendo gli sprechi da eliminare con il costo della democrazia da difendere);
b) la riduzione del numero dei senatori (ignorando che il problema non è la quantità ma la qualità degli eletti); si potevano invece ridurre gli stipendi ed eliminare i molti privilegi dei parlamentari, dei dirigenti e dei dipendenti dei ministeri e delle due camere, oltre che dei manager di tutte le aziende pubbliche;
c) la velocità di decidere (l’esperienza dice che il processo legislativo ha bisogno di attenta riflessione e non di ritmi cronometrabili).
Questi argomenti, giudicati sgraziati e sgradevoli, coprivano il rifiuto a varare una vera e organica riforma costituzionale:
a) conciliare principi irrinunciabili con una più larga partecipazione alla decisione;
b) regolare la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali fissando i criteri per l’adesione, le condizioni di permanenza e le modalità di recesso.
Il fautori del NO alla Riforma hanno sostenuto che non vi fossero le condizioni per negoziare improbabili modifiche alle leggi elettorali. Hanno sostenuto che votare SI significava:
· Ratificare ed approvare le politiche economiche e sociali imposte all’Italia dal vincolo estero, Europa, anche per il futuro;
· Aprire la strada alla soppressione di fatto della prima parte della Costituzione;
· Scivolare verso l’irrilevanza del potere parlamentare e la unificazione del potere esecutivo con il potere legislativo;
· Ritorno alla Costituzione “flessibile” dello Statuto Albertino;
· Consegnare le garanzie Costituzionali e l’iniziativa per le revisioni costituzionali alle decisioni del partito prevalente anche se largamente minoritario nel Paese.
Hanno affermato di sapere anche che votare NO metteva momentaneamente al riparo di temerarie azioni restauratrici di un servaggio costituzionale a poteri senza volto e a forze senza controllo democratico.
Le forze di sinistra sul piano nazionale si opposero allo Statuto Albertino perché fu concesso dal Sovrano senza voto popolare. La sinistra fu postmonarchica nel 2° risorgimento. Il referendum istituzionale e l’Assemblea Costituente chiusero il ciclo storico della contrapposizione del popolo allo Stato. Le posizioni della sinistra italiana, variegate, non omogenee, sono oggi di fronte ad un bivio: o sconfitta storica per abbandono delle proprie ragioni di lotta politica o nuova primavera di una sinistra rinnovata per il 3° Risorgimento. Hanno sostenuto che votando NO al Referendum si sarebbe verificato il primo passo, necessario ed indispensabile, per riguadagnare un ruolo di direzione nel rispetto del pluralismo politico e sociale. Alcune ragioni delle destre sono simili nei principi ma per attuare poi, vincendo le elezioni, il loro programma di governo, ovviamente molto diverso e in certi campi opposto nell’affrontare ii problemi di carattere sociale ed economico.
Ha vinto il NO con larghissimo vantaggio. E’ stata una risposta politica netta. Dopo il referendum sarà necessario un governo di scopo con compiti da chiudere in tempi non troppo lunghi:
1. legge elettorale e definizione dei poteri di un’Assemblea Costituente;
2. impegno del governo a non assumere decisioni comunitarie che incidano sulla prima parte della Carta Costituzionale (per il referendum consultivo è sufficiente una legge ordinaria).
C’è necessità, in tutti i modi, di aprire a tutti i ceti sociali e di uscire dalla grave e insensata politica dell’austerità, sbagliata nei fondamenti sociali ed economici, iperliberista e succube di poteri sovranazionali, imposta da questa Europa. Il riformismo dall’alto è la carità dei potenti, il riformismo dal basso è la certezza dei deboli. Il nodo politico che l’Assemblea Costituente dovrà sciogliere è di grande rilievo storico perché si dovrà fissare un principio inedito: come cedere sovranità nazionale garantita dalla Costituzione nazionale ad enti sovranazionali senza Costituzione, con garanzie precise di reciprocità e democrazia vera, partecipata e condivisa, per tutelare tutta la comunità e gli interessi nazionali.