Antonio Marras al “Festival Pazza Idea”: «L’arte nasce dall’andare fuori strada, per me la bellezza sta nel difetto»
di Francesca Matta
Antonio Marras, stilista, costumista e artista di fama internazionale, ha iniziato a fiutare il bello fin da giovane, mentre lavorava ad Alghero (dov’è nato nel ’61) nel negozio del padre Efisio, commerciante di tessuti. A ventisei anni disegna la sua prima collezione, che rimanda a Bette Davis, quindi il cinema – suo primo grande amore. Compiuti i trenta viene selezionato per sfilare durante l’Alta Moda a Roma. L’anno dopo è a Parigi a presentare la sua prima collezione Le nuvole. La sua carriera corre veloce e nel 2003 viene chiamato a collaborare come direttore artistico per la maison parigina Kenzo, di cui firmerà la collezione l’anno seguente.
La creatività di Antonio Marras è fatta di sperimentazioni, contaminazioni e contrapposizioni. Un mix di modi e culture le più differenti possibili che si intrecciano per trovare una sintesi. La Sardegna è stata la sua prima fonte di ispirazione e, in particolare, l’artista sarda Maria Lai l’ha ispirato e guidato verso la commistione tra il disegno e il tessuto. È il maestrale che gli manca quando è lontano da casa, una forza che lo spinge alla continua ricerca del nuovo, per poi riportarlo a sé, le sue radici.
Ma prima di incontrare l’Arte, le cose per Antonio Marras non sono andate sempre bene. «Dislessico e discalculico senza riconoscimento, l’infanzia è sempre presente e le scuole elementari sono state difficili. Le pagine scritte mi tormentavano», racconta nella serata di sabato 23 novembre al pubblico del Festival Pazza Idea, al Ghetto di Cagliari, che quest’anno è dedicato ai temi di Bellezza e Rivoluzione. «L’unica cosa che mi placava – continua – erano le figure, le immagini. E le poesie, tutte imparate a memoria in pochi secondi. E le canzoni. Musica e poesia mi hanno letteralmente salvato la vita». E i suoi lavori sono lì a dimostrarlo.
Quest’anno il tema del festival è “Bellezza e Rivoluzione”. Che rapporto c’è tra le due?
La rivoluzione è qualcosa che tutti quotidianamente tentiamo di portare avanti e di combattere nel quotidiano, e quindi la noia che ci attanaglia ed è sempre lì pronta ad assalirci. Ma non solo quella, è la realtà con cui ci scontriamo, fatta di persone, di eventi e di luoghi che viviamo.
Cos’è la bellezza per Antonio Marras?
La bellezza è qualcosa che non saprei definire perché non ho nessuna icona di bellezza. Credo che la bellezza che ricerco stia nel difetto, nella stortura, nell’incompiuto, nel non concluso. Che solo lavorando su quello si può raggiungere e colmare quello che manca. C’è una credenza che vuole che l’oggetto regalato all’imperatore fosse quello che aveva un difetto perché quel difetto rendeva unico quell’oggetto. Credo quindi che la bellezza stia nel rendere unici.
Nelle sue creazioni si porta dietro sempre un po’ di Sardegna. Come vengono percepite all’estero e cos’è che le rende dei pezzi unici?
Non saprei dire come vengano percepite all’estero o altrove. So solo che qualsiasi cosa facessi fino a qualche tempo fa era riconducibile alla Sardegna. Che partissi dai costumi orientali, dei mandarini, o dalle donne in Thailandia, tutto veniva riportato alla Sardegna. E questa era una stortura, una comodità per chi guardava perché avevano bisogno di incasellarmi, di mettermi un’etichetta. Uno è minimalista, l’altro è massimalista, quell’altro fa il folk e via dicendo. In realtà io non mi sono mai posto limiti. Odio i muri, le barriere, quindi ho sempre dialogato, invaso, mi son scontrato e ho cercato di trovare un contatto con mondi del tutto estranei al mio.
Per esempio?
Penso all’Oriente, che è la cosa più estrema, più agli antipodi dal mio mondo, dalla mia terra. Il costume sardo per dire è fatto di mille pezzi, mille pieghe, corpetti, sovrapposizioni rispetto al kimono, formato da un rettangolo centrale e due piccoli rettangoli che formano le maniche, che è come dire la quintessenza del minimalismo. E questi contrasti, questi due mondi che sono diametralmente opposti, ho provato a farli dialogare in qualche modo.
La figura del designer è sempre più richiesta e il settore della moda attira sempre più giovani. Cosa consiglia a un ventenne che vuole intraprendere la sua carriera?
Che cambino lavoro immediatamente! [ride]. No in realtà il concetto che deve passare è che chi va a studiare moda non si deve fermare lì e occuparsi solo di moda. C’è un mondo intorno, che gira ogni giorno dove bisogna veramente posare l’occhio per prendere, rubare, assorbire mille cose. Che siano le mostre, il cinema, il teatro, la danza, la poesia, l’arte contemporanea, l’arte classica. Son tante cose che devono veramente colmarti, formarti e attraverso le quali poi tu sperimenti quel che vorresti fare. E soprattutto bisogna far capire a questi ragazzi che non tutti faranno lo stilista. Perché ce n’è uno nella storia della moda. E siccome questo lavoro non si fa da soli ma in equipe, e ogni ruolo è fondamentale, dovrebbero guardare più alle professionalità che stanno accanto allo stilista e senza le quali non esisterebbe.