Daniele de Muro ci racconta del suo pluripremiato cortometraggio “Horizon”.

Prove luci insieme all’attore Carlo Porru dal set di Horizon. Foto di Alessandro Corongiu

Daniele de Muro, 39 anni, regista del cortometraggio Horizon – girato tra le campagne di Villaspeciosa e di Decimoputzu – ci racconta del suo percorso artistico e della sua esperienza con il suo ultimo lavoro, un corto della durata di 15 minuti ambientato in un futuro distopico.

Horizon è stato presentato in anteprima italiana al 19° Trieste Science Film Festival ed è stato selezionato in più di 240 Festival cinematografici internazionali. Tra questi è entrato in concorso al 66° Festival dei David di Donatello.

Ha ricevuto oltre 100 riconoscimenti in tutto il mondo, tra i quali Miglior Regista Indipendente al Los Angeles Film Awards, Miglior Regia all’European Cinematography Award e ha ricevuto i premi come Miglior Fotografia e Miglior Cortometraggio per il pubblico all’Awesome Con Film Fest.

Daniele, raccontaci della tua formazione nel campo cinematografico

«Nel 2009 mi sono iscritto a un laboratorio di cinema organizzato da Antioco Floris al CELCAM (Centro per l’educazione ai linguaggi del Cinema, degli Audiovisivi e della Multimedialità) dell’Università di Cagliari. Ho iniziato a conoscere tante persone dell’ambiente culturale del cinema. Il corso è stato interessante perché si è arrivati alla realizzazione di un cortometraggio: La Lettera, con la regia dell’insegnante del corso Enrico Pau e con la partecipazione di tutti noi studenti. In seguito ho seguito un altro corso – sempre al CELCAM – di fotografia cinematografica con Corrado Serri, un bravissimo direttore della fotografia, e che ha realizzato tanti film, tra i quali ha firmato la fotografia di Ugolino di Manuele Trullu. La teoria da lui è stata formidabile: capire tante cose delle riprese, delle inquadrature e della luce e del suo uso. È stato fantastico.
Sul campo, ho collaborato per una decina d’anni in mille progetti, tutto quello che trovavo: passavo da un set all’altro perché se dovevo imparare dovevo lanciarmi e andare nei set, altrimenti non si impara pienamente. Ho collaborato tra gli altri con Jacopo Cullin e con Claudio Marceddu, anche lui un bravo direttore della fotografia».



Tra le tante persone con cui hai lavorato, c’è qualcuno in particolare che ti ha lasciato il segno?

«Manuele Trullu è un po’ il mio mentore perché è con lui che ho capito come lavorare con l’attore. Per quanto riguarda il modo in cui farlo entrare nel personaggio, in termini di espressività e di tempi narrativi. Con Jacopo Cullin ho lavorato a due cortometraggi, in uno ho fatto da assistente e nell’altro da cameraman. È stato molto utile anche quello. Jacopo è molto bravo con le idee, è molto creativo».

Parliamo ora del tuo cortometraggio, Horizon. La croce spicca tra le immagini in maniera emblematica. Un chiaro riferimento alla religione cristiana. È stata utilizzata come oggetto scenico con un preciso significato? Potresti descrivere meglio la funzione di una religiosità (anche storica e millenaria) associata a questo contesto distopico?

«Il protagonista del cortometraggio, interpretato da Carlo Porru, sta arrivando alla fine della sua vita. In quel contesto da “fine del mondo” lui rappresenta il passato, non di un solo individuo ma di tutta un’umanità, che prima aveva una fede e che credeva in qualcosa di grande – mentre invece il futuro è rappresentato dalle due giovani. Nel cortometraggio infatti la croce rappresenta il passato di un’umanità molto fedele a una religione. Una fede che finisce con il protagonista anziano, che riconosce un futuro nelle giovani donne, con la speranza in un futuro migliore e quindi una nuova fede. Il messaggio intrinseco di speranza è racchiuso nelle due giovani, mentre la croce rappresenta una speranza antica ed effimera, che finisce con il protagonista anziano».



Come hai scelto il cast del tuo cortometraggio?

«Con Carlo Porru avevamo già collaborato in diversi progetti, quindi c’era già un’intesa – fondamentale, avendo tempistiche e budget limitati – che doveva arrivare molto in fretta per capirci velocemente su ciò che volevamo. La sua presenza è stata quindi fondamentale in quanto pilastro; Daniele Meloni invece era un volto perfetto come antagonista ed era da tempo che desideravo collaborare con lui. In questo ruolo l’ho trovato perfetto, un po’ John Malkovich, e quindi anche lui è stato un grande aiuto: sempre disponibile, ci vedevamo per le prove ma siamo riusciti subito ad arrivare ad una sintonia fondamentale. Infatti ricerco sempre attori con la quale ci sia un rapporto o un’intesa immediata, altrimenti difficilmente si arriva al risultato desiderato; con Viola avevo già avuto occasione di collaborare anche se non come regista. Lei ha partecipato come protagonista ad un cortometraggio, White Rabbit, insieme a Emilio Puggioni, che ha come regista Joe Bastardi (Giovanni Piras). Ho avuto il modo di conoscerla ma era ancora molto giovane (5 anni probabilmente), in seguito ha continuato a lavorare in molti altri progetti come video musicali o come La strega di Belvì, un mediometraggio che è uscito qualche anno fa, e cercavo un volto simile all’altra attrice; Chiara, invece, l’avevo notata da facebook su alcune foto e ho pensato che fosse un volto adatto. Ha fatto un po’ di teatro, ha lavorato per due anni al teatro delle Saline e si è lanciata nel progetto con entusiasmo; Elisa Desogus, che ha lavorato parecchio nel campo della pubblicità, ed ha collaborato con Jacopo Cullin. Ha girato nello spot Ichnusa con Ugo Garau, ha studiato recitazione a Roma, era il volto giusto per il mio cortometraggio».


Parte del cast a una presentazione e proiezione di Horizon

Che tipo di regista sei?

«Per me è fondamentale pianificare il progetto a tavolino, perché quando arrivi sul set devi avere già tutto ben chiaro, tutto deve essere super organizzato, super preciso. Ho fatto più casting per tutti i personaggi: ho visto più attori per lo stesso ruolo. Abbiamo girato all’aria aperta e quindi anche la luce naturale era da tenere in considerazione. Ci siamo incontrati più volte, abbiamo fatto le prove, gli attori hanno simulato i combattimenti e abbiamo capito dove volevamo arrivare. Era fondamentale anche sapere con precisione cosa impersonare a livello espressivo. Poi, naturalmente, faccio sempre più di un ciak perché per me “buona la prima” non esiste. Cerco sempre un’energia e quando vedo che c’è, quando sento che tra gli attori si è innescato il meccanismo giusto e il movimento di camera riesce a cogliere questa intesa, allora la tengo buona e vado avanti».



Distopia contro la fobia sul futuro. Come è nata l’idea di Horizon?

«Per me Horizon nasce per via delle mie ansie e delle mie paure verso un futuro incerto, che vediamo tutti i giorni sui telegiornali. “Ecoansia”, come viene chiamata, è una forma razionale di risposta nei confronti del cambiamento che stiamo vivendo, e quindi sentivo dentro questa sensazione da parecchio tempo. Ho atteso di avere le competenze per poter raccontare una storia. La prima versione della storia è stata scritta nel 2013, ed è rimasta lì a “fermentare” per qualche anno perché non era ancora arrivato il momento giusto. Quando è arrivato il momento, mi sono sentito di mettermi in gioco in questo progetto anche perché la narrazione negli anni continua ad andare verso questa direzione sia nella narrativa che nel cinema, nelle serie tv, nei video giochi… Sentivo ulteriormente una chiamata a dover lavorare su questo filone. Sentivo che fosse fondamentale parlarne. Il mondo della fantascienza negli ultimi anni ha subito un enorme cambiamento perché prima veniva vista come un tipo di narrazione che raccontava di mondi lontani nello spazio e nel tempo, mentre oggi è quasi un presente drammatico e attuale, dal mio punto di vista. Tanto è vero che con Horizon volevo raccontare con un realismo verosimile di un collasso della società civile, che vedo e immagino legato a tutta una serie di fattori: carenza di risorse energetiche, guerre, l’aumento delle temperature causate dai cambiamenti climatici che porta a questa migrazione dal sud verso il nord, altre pandemie, crisi idriche e alimentare. Se si continua verso questa direzione ad un certo punto ci sarà un collasso e un punto di non ritorno, e quindi ho voluto raccontare, con ciò che posso, un piccolo spaccato: un piccolo gruppo di sopravvissuti in cui vediamo alcuni che scelgono di cancellare totalmente qualsiasi forma di civiltà (impersonati da Daniele Meloni, Sara Fanari), e quelli che invece hanno ancora un po’ di speranza e credono nel futuro dell’umanità, come il personaggio interpretato da Carlo, tanto è vero che si sacrifica per le due sorelle».

I tuoi riferimenti più solidi nell’arte cinematografica: da chi ti lasci ispirare?

«Il mio punto di riferimento è Terrence Malick perché parte da una visione attraverso l’immagine. Lavora con luce e con i movimenti degli attori in scena. Mi piace molto lavorare negli spazi aperti e lavorare con la luce naturale, piuttosto che con la luce artificiale delle lampade, e soprattutto mi piace raccontare attraverso le immagini, con l’espressività degli attori, con la natura, e solamente in un’ultima fase arrivare al dialogo, perché per me il cinema nasce senza i dialoghi, e anche le musiche vengono prima. Anche Spielberg è un punto di riferimento; per quanto riguarda il cinema italiano, invece, sicuramente Sorrentino e Guadagnino. Mi piace molto Laura Samani, Piccolo corpo, perché secondo me c’è un po’ di Malick anche nel suo cinema, anche se è poco conosciuto ma secondo me è su quello che bisognerebbe andare nel raccontare le storie. Mi piacciono molto i film del Sundance film festival (un festival americano di film indipendenti) e i miei generi cinematografici preferiti sono il dramma, la fantascienza e l’horror».

Hai un messaggio da tramandare?

«Lo scopo per cui ho iniziato a fare cinema era per uscire da un mio blocco, perché ho trascorso un’infanzia triste, in cui sono stato affossato da tutta una serie di circostanze in cui non sono stato bene, non avevo amici. Le mie giornate le trascorrevo sempre in casa, dove leggevo o guardavo film. Inoltre non riuscivo ad esprimermi ma ad un certo punto sono esploso, i primi set davano da subito grandi risultati, sono arrivati i primi video musicali e le prime collaborazioni; mi veniva facile curare la fotografia, le riprese, il montaggio e la spontaneità con cui arrivavo mi faceva sentire che era la strada giusta. Non ho un messaggio specifico se non ad esempio in Horizon si evince il mio forte legame con la tematica ambiente-clima. Sentivo una necessità espressiva di raccontare quella storia e mi ha fatto stare meglio seguire questa strada».

Progetti futuri?

«Sto lavorando a un cortometraggio e alla sceneggiatura di un lungometraggio».

Dove sarà possibile vedere Horizon?

«Vorrei portarlo in tutti i posti possibili e fare decine e decine di presentazioni, soprattutto qui in Sardegna, e mi dispiace non essere stato selezionato in nessun festival della nostra isola. È stato iscritto ma non è stato selezionato e questo mi dispiace molto perché avendo fatto un bel percorso sia qui in Italia che all’estero con più di 50 selezioni eravamo sicuri di proporre un prodotto valido alle organizzazioni e ai direttori artistici dei festival. Nonostante questo ci tengo tantissimo a proiettarlo nella nostra regione piuttosto che caricarlo su internet, quindi non sarà disponibile online».

Mara Boi


Daniele de Muro

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