Gad Lerner al “LEI Festival”: «Gli esseri umani non hanno radici. Grazie al cielo siamo tutti bastardi»
Appena compiuti i suoi 65 anni, Gad Lerner prende l’aereo per festeggiarli sul palco del Teatro Massimo di Cagliari, in occasione del “LEI Festival”. Dopo una lunga carriera giornalistica, iniziata a soli ventidue anni come attivista e redattore di Lotta Continua, per poi arrivare alla conduzione di noti programmi televisivi alla Rai e La7, torna a raccontarsi. E lo fa senza mezzi termini, attraverso un assioma che ormai ha fatto proprio: «Gli esseri umani, al contrario di quel che vogliono farci credere, non hanno radici. Grazie al cielo, e per fortuna, siamo tutti bastardi».
Lo sa bene lui, nato a Beirut da una famiglia ebraica, ma cresciuto a Milano sin dall’età di tre anni. Una condizione, quella di apolide, che ha mantenuto finché dopo trent’anni di residenza sul suolo italiano è riuscito ad ottenere la cittadinanza tricolore. Ma questo non è bastato ai militanti leghisti di Pontida, quelli che lo stesso Lerner racconta dagli anni ’90, che lo scorso settembre l’hanno apostrofato con “Ebreo! Tu non sei italiano, tornatene al tuo Paese”. «È stata la prima volta che mi succedeva in un luogo pubblico», racconta il giornalista agli spettatori presenti in sala. Forse è proprio questa disinvoltura nel far ricorso a un linguaggio di sfida, violento e greve, che l’ha spinto a mettere nero su bianco un intervento di un’ora e dieci minuti, in cui fa il punto della situazione politica, sociale e culturale italiana.
Le parole di Lerner
Questa sera ci parla di una pratica molto comune di questi tempi tra politici, media e società civile: l’abuso del concetto di “identità nazionale”, per ricordarci che gli esseri umani, in realtà, non hanno radici. Come si fa a spiegarlo a un Paese di patriottici come l’Italia?
Sono convinto che gli uomini non sono vegetali. In realtà, ciascuno di noi non è altro che la stratificazione di tante diverse identità, che solo qualche ideologo acceso vorrebbe costringerci a ridurre a una soltanto. Ma questo è impossibile. Restare attaccati e non potersi muovere significa, semplicemente, morire. Qualsiasi forma di vitalità, di rinascita, di prospettiva di sviluppo passano attraverso l’esperienza del movimento. Di persone che vanno e vengono. C’è chi ripropone ancora la retorica, quasi sempre inautentica, artificiosa, del “bel tempo che fu”, del ritorno alle origini, di tradizioni, che nella maggior parte dei casi sono reinventate.
C’è anche la retorica contro l’immigrazione, ancora dominante. Lei pensa sia una questione di razzismo insito negli italiani oppure c’è una sorta di paura – soprattutto da parte delle classi sociali più deboli – di venire “contagiati” dalla povertà di quei migranti che arrivano da Paesi in difficoltà?
La povertà in Italia negli ultimi dieci anni è raddoppiata, e questa è una statistica brutale che spiega molto anche dei sentimenti delle componenti della nostra società che sospettano – a ragione o a torto – che dal futuro abbiano solamente da perderci. Delimitare il perimetro degli aventi diritto delle prestazioni dello stato sociale sarebbe l’unica soluzione quando la torta si restringe e dobbiamo essere in meno a mangiarla. Così lo straniero è diventato un elemento simbolico potentissimo anche in maniera sproporzionata rispetto alla dimensione numerica della cosiddetta “invasione”. Se si va a guardare le cifre, diventa molto complicato teorizzare che il malessere degli italiani, la decrescita, la stagnazione economica siano causate dagli stranieri. Però loro diventano l’elemento attraverso il quale tu puoi cercare di distinguere chi è meritevole di protezione, di cura e di sostegno economico e chi invece è “abusivo” e come tale deve esserne escluso. La vecchia guerra fra poveri.
Il partito che ha conquistato una buona fetta degli elettori appartenenti a queste classi sociali è la Lega, laddove prima c’erano i movimenti operai che si battevano contro il capitalismo. Ma la Lega è tutt’altro che anticapitalista, anzi. Penso, ad esempio, alla quota di azioni della multinazionale Arcelor Mittal detenute dal partito.
La Lega non si pretende affatto anticapitalista. È invece un movimento che vuole additare dei simboli, dei bersagli, dei nemici del popolo. Tutto si gioca su questo concetto, questa dicotomia: chi fa parte del popolo, chi ne è portavoce, e gli altri che sono traditori del popolo oppure stranieri. Ma questi altri stanno sia in alto che in basso. Possono essere sia il finanziere chiamato “usuraio” George Soros, che sarebbe il burattinaio che pianifica l’immigrazione finanziando le Ong, sia gli ultimi poveracci che arrivano dal Mali, dal Camerun o dalla Nigeria. Ricchissimi e poverissimi, tutti contro noi poveri italiani. Il razzismo è contro gli italiani. Questo è il meccanismo psicologico che costituisce senso comune in quelle componenti della società che hanno paura del futuro.
Lei è stato attivista e giornalista di Lotta Continua, movimento di sinistra extraparlamentare, poi si è schierato a favore della Margherita e successivamente del PD (per poi uscirne nel 2017). Cosa manca alla sinistra oggi? Riesce a vedere una luce in fondo al tunnel?
Io credo che le rappresentanze politiche della sinistra, per vari fattori e non solo per difetti personali dei dirigenti – sarebbe troppo facile ridurla così – essendosi trovate a governare in periodi difficilissimi in cui nel nostro mondo, Europa e Nord America, il valore del lavoro calava, le retribuzioni e i diritti dei lavoratori indietreggiavano, non siano riuscite a mantenere un legame con quelle che Antonio Gramsci chiamava le “classi subalterne”. Ed è difficilissimo ricostruirlo, credo che ci vorranno degli anni.
E in tutto questo, l’Unione Europea che ruolo può giocare?
Io credo che in questo ambito la contrapposizione fondamentale sarà – uso parole antiche – fra internazionalisti e nazionalisti. Il nazionalismo di oggi all’italiana è un nazionalismo all’acqua di rose: non è militarista, non minaccia guerre perché non avrebbe persone disposte ad andare a combattere per difendere il nostro sacro suolo. E aggiungo, per fortuna. Ma l’idea di poter separare all’interno della nostra società gli italiani dagli altri, quel “Prima gli italiani”, che è uno slogan così potentemente suggestivo, credo che sia anche il grande limite, l’impotenza di chi promette miglioramenti attraverso un metodo che non è applicabile. E invece, la dimensione europea, la dimensione internazionale della tutela dei diritti, delle nuove conquiste, è l’unica che ha delle chance di successo. Così come ha dimostrato nei decenni passati.
Come vede i Cinque Stelle in questa nuova veste di alleato politico del PD?
Li vedo molto, come dire, maldisposti. E lo capisco, perché esistenzialmente sono nati in totale contrapposizione al PD. Sono abbastanza consapevoli che è in corso una disgregazione del loro movimento. Temo che, come sempre avviene in questi meccanismi, una parte di ceto politico degli eletti a questo punto metta in atto meccanismi di autoconservazione. Penseranno come salvare le loro prospettive di carriera politica.
Oggi il nostro Paese è diviso tra chi scende in piazza con il movimento delle “sardine” per protestare contro la politica dell’odio e chi considera “di parte” dare la cittadinanza onoraria alla senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio. Come si è arrivati fin qui e che scenario si aspetta di vedere in un futuro prossimo?
Credo che il susseguirsi nel dibattito pubblico di questo uso di terminologie volgari, aggressive, di scherno, minacciose, abbia creato disagio per il profilarsi dell’immagine di un’Italia carogna. Perché quando ci vuole ci vuole, di fronte alle nostre difficoltà dobbiamo diventare cattivi e ce ne compiacciamo e diciamo a voce alta cose orrende che prima si dicevano soltanto sottovoce. Tutto questo sì, ha conquistato i talk show televisivi, ha conquistato i social network, ma creava disagio in giro. Creava imbarazzo, vergogna. E il movimento delle “sardine” è proprio l’espressione di questo bisogno di distinguersi.
Francesca Matta