Il potere salvifico della cultura
di Giancarlo Pillitu
La politica è deludente. Sempre più deludente. Il senso di appartenenza si affievolisce. Sentiamo il bisogno della comunità, ma non ci riconosciamo in essa. O perlomeno, non abbastanza. Troppe contraddizioni, un caos di micro-ragioni e di storie, per poter elaborare una sintesi proficua, una risultante feconda. A che cosa rivolgere allora il pensiero e il sentimento, la ragione e il cuore? Considerando anche che la politica e la comunità non sono altro che un’evasione o, nel migliore dei casi, il tentativo di trovare un po’ di solidarietà, rispetto all’oggetto sempre sfuggente, perché indefinibile, di quell’incessante ricerca che è l’esistenza umana.
Il poeta portoghese Fernando Pessoa ci accompagna alla rassegnata e malinconica certezza del “So che mai avrò” (come recita il titolo di una sua lirica): “So che mai avrò ciò che cerco,/e che non so cercare ciò che voglio,/ma cerco, insciente, nel silenzio oscuro/e stupisco di quel che so che non bramo”. E’ davvero sorprendente sapere (socraticamente) almeno ciò che non si desidera, ciò che si rifiuta. Talvolta, buona parte dell’esistente, in quanto lo si percepisce come ingiusto e irrazionale. Molti aspetti della politica e della comunità (italiana, europea, mondiale) attuali, per esempio. Una delusione che si trova all’origine della cultura occidentale. Si pensi a Platone e a ciò che dichiara, in particolare, nella Lettera VII: “Ad un certo punto mi feci l’idea che tutte le città soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia”.
Platone sembra capovolgere il nostro assunto iniziale. Si è cercato nella comunità quella solidarietà che avrebbe dovuto compensare il vuoto di una ricerca esistenziale destinata al fallimento. La politica avrebbe dovuto colmare il vuoto della verità, rimpiazzandola col senso. Ma Platone, sulla base della sua esperienza personale e della sua profonda riflessione, ci insegna che senza il fondamento della verità, oggetto della ricerca filosofica, non può esistere una politica che orienti verso il bene comune e che sappia realizzare una società giusta. La politica non è quindi un’alternativa al sapere, intesa come compensazione etico-sociale, ma il suo frutto migliore. Sappiamo ciò che non vogliamo, siamo delusi dalla pólis, non abbiamo un fondamento esistenziale. Il cuore del nostro essere è dunque il vuoto? Per nostra fortuna, la risposta è negativa, perché questo vuoto di verità è, al tempo stesso, pienezza di senso, criterio di orientamento che demarca una linea di confine. Quella tra finito e infinito, vita e morte.
Possiamo valorizzare al massimo grado il segmento finito della vita in cui viviamo e operiamo. Riconoscergli una risonanza infinita. E’ l’immenso lavoro della cultura. Essa sostituisce la verità e la solidarietà, quando sono latitanti. Rappresenta il senso. Il rapporto tra finito e infinito. La verità del finito, che è il sapere di non sapere, e la solidarietà che da essa ci proviene. Tale è il sapere dei filosofi. Il sapere che tesaurizza e valorizza anche l’ignoranza. Sottraendo, in virtù della trasformazione simbolica, la vita alla morte. Perché, come ci ricorda la poetessa polacca Wisława Szymborska: “Non c’è vita/che almeno per un attimo/non sia stata immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo […] A nessuno può sottrarre il tempo raggiunto” (W. Szymborka, “Sulla morte senza esagerare”).
La cultura trasforma la vita: prima in memoria, poi in pensiero critico. E’ la forma più alta di solidarietà. Vera comunutà, al di là del tempo e dello spazio. Ma non per questo astratta. Al contrario. La vera astrazione è piuttosto l’irrigidimento nel proprio particolare, che chiude, esclude e preclude. Perché l’astratto separa, mentre il concreto unisce.
Martin Heidegger, in una celebre “Intervista con lo Spiegel” (concessa nel 1966, ma pubblicata solo dopo la sua morte nel 1976) sosteneva che “Ormai solo un Dio ci può salvare”. Forse aveva ragione. Ma questo dio, o meglio dea, è sicuramente la cultura.
Ma in che modo la dea-cultura ci può salvare, nonostante la morte, la sofferenza e l’ingiustizia sociale? Semplicemente (si fa per dire!) donandoci la felicità. Ovvero un orizzonte di senso. Una (felice) combinazione tra consapevolezza (dei propri limiti) e inconsapevolezza (del nostro destino). Un “libero gioco”, per dirla con Immanuel Kant, fra intelletto e immaginazione, reso possibile dalla quella nostra capacità di trasporre in simboli le cose che è la cultura.