Intervista a Daniele Meloni, attore per vocazione
Intervista a Daniele Meloni, 61 anni, di professione attore (da 40 anni) e educatore (da 32 anni)
Quali sono state le tue principali esperienze artistiche?
«Ho iniziato a recitare con il teatro dialettale nel 1985 e lì ho capito che la recitazione faceva parte di me, la dovevo fare perché era una cosa che mi faceva stare bene, mi faceva sentire la vita. In più lo facevo con molto vigore, anche se ero nel gruppo dei dilettanti ero molto rigoroso. Avevo vinto anche un premio come migliore attore a Guspini nel 1989 per questa commedia sarda Sa piola de sa ciccitta. Lo scrittore delle commedie era Giovanni Enna, davvero geniale nello scrivere, un talento di famiglia. I testi delle sue commedie erano anche profondi ma allo stesso tempo molto comici. Era un gruppo di Quartucciu con cui ho lavorato 12 anni e mezzo (dal giugno dell’85), poi sono andato via perché volevo fare cose diverse però lì ho capito davvero che per me era una cosa importante dal punto di vista interiore, una bellissima ricerca. Anche perché fino ad allora avevo sempre fatto cose che non c’entravano nulla con me: avevo sbagliato gli studi (sono perito meccanico), poi mi ero iscritto all’Università in geologia, avevo fatto il militare, sbagliato amicizie. Quindi l’esperienza con il teatro, che avevo iniziato a 22 anni appena compiuti, mi aveva fatto sentire veramente bene e da lì non mi sono mai fermato. Ho fatto un’esperienza con il Vicoletto tra la fine dell’’86 e l’89, pensavo che potesse essere un lavoro, come dire, da professionista. Invece alla fine non si era rivelato tale. Ho fatto due tournée per le scuole, facevamo teatro classico.
Nel teatro con le Lucido Sottile mi è capitato di recitare per delle performance molto stravaganti, soprattutto una: Stanze tirate a Lucido del 2008, bellissimo, dove io ho lavorato vestito da donna con tacchi da 15 cm e mi sono divertito tanto. Abbiamo lavorato per un mese tutti i giorni e io ho lavorato portando avanti una profonda ricerca interiore perché ho lavorato con il mio essere maschile e con la mia donna interiore, quindi ho fatto un lavoro con il maschile e con il femminile. Lavoravo con il pubblico, improvvisavo tantissimo, mi sono proprio inventato dal nulla quello che dovevo fare perché loro mi hanno dato carta bianca. È stato bellissimo anche perché avevo appena iniziato a frequentare gruppi di tantra.
Ho sentito la loro profonda fiducia nei miei confronti: le Lucide sono molto intelligenti ed empatiche.
Nel 1999 ho fatto uno spettacolo di cabaret in trio (io, Marco e Luca: i due e mezzo) e lì mi sono divertito molto, abbiamo replicato 11 volte nei locali di Cagliari, anche quella è stata un’esperienza molto divertente: suonavo la chitarra e cantavo, oltre a recitare. Facevamo un po’ teatro canzone alla Giorgio Gaber, un po’ teatro demenziale alla milanese degli anni ’70.
Non faccio teatro da 10 anni ormai».
Per quanto riguarda invece il mondo del cinema?
«A livello cinematografico la mia esperienza scatta nel 1998 quando a 35 anni ho iniziato a fare cortometraggi con Marco Gallus, ne ho fatto forse 4 o 5 con lui e anche lì mi piaceva molto stare in quel contesto, stare sul set, fare quel tipo di ricerca che era un po’ diversa dalla ricerca teatrale e poi Marco mi consentiva molto, specialmente nel primo che abbiamo girato, il Pregiudizio (sull’omosessualità, in bianco e nero): mi dava adito a improvvisare.
Nel 2001 arrivo a fare un’esperienza da professionista importante, anche ben pagato, con Riccardo Milani dove avevo recitato in Il sequestro Soffiantini e avevo fatto circa 24 giorni di lavoro (24 pose), per la prima volta sono stato in un set cinematografico di una produzione molto grossa. Poi da lì piano piano ho fatto altre cose, mi ero fermato un periodo, per poi riprendere.
Deu ci sia (regia di Gianluigi Tarditi), è un altro cortometraggio di 15 minuti per il quale sono stato premiato migliore attore in un festival a Roma nel 2011. È stata un’esperienza fantastica perché ho lavorato con un regista con cui mi sono trovato bene (come è successo con Daniele de Muro per Horizon), ha vinto il Globo d’Oro nel 2011 con la stampa estera. Tra il 2005 e il 2019 ho studiato molto recitazione e danza Butoh».
Chi sono i tuoi maestri?
«Anna Maria Cianciulli (attrice) e Danio Manfredini (quattro volte premio Ubu, attore teatrale e regista) sono due maestri che mi hanno insegnato molto.
Quando vidi il monologo Il miracolo della rosa di Danio, persona di grande spessore umano e di talento, pensai che fosse il monologo più bello visto nella mia vita. Penso che in Jean Genet ritrovasse molto di sé stesso. L’ho incontrato per la prima volta nell’ 88 ma ebbi modo di conoscerlo meglio nel 2013 per un seminario a Bologna. Mentre nel 2018 ho partecipato ad un altro stage di 10 giorni intensivi, anche quello eccezionale. Fondamentale per capire la ricerca del personaggio e per imparare a sentire quando stai recitando bene soprattutto in scena. Danio è molto minuzioso, ci lavora ore, inoltre dipinge, canta… è un genio! Sono molto felice di conoscerlo. Con lui e sempre un chiacchierare profondissimo e sa andare sempre oltre le parole.
Con Anna Maria Cianciulli invece è stato un lavoro più sul metodo Meisner (uno dei tre metodi sulla Actors studio). L’ho avuta come insegnante dal 2006 al 2011. Laboratori incentrati specialmente sulle emozioni e su come portarle in scena. Ma anche sulle reazioni da adottare in base agli altri attori in scena».
Se dovessi pensare a dei maestri che ti hanno in qualche modo insegnato i valori fondamentali della vita e del tuo atteggiamento nei suoi confronti, chi ti viene in mente?
«Osho Rajneesh, Gurdjieff e Krishnamurti. Questi tre pensatori in particolare, per me illuminati. Sono fondamentali per me tutt’oggi perché continuo a leggerli, a sentirne i video e c’è un libro per esempio di Krishnamurti che si chiama Libertà dal conosciuto e che mi ha aiutato molto anche per quanto riguarda la recitazione, perché mi ha fatto capire che l’arte non è nella testa ma in un’energia che si muove e che è difficile da conoscere».
Cosa pensi della relazione tra linguaggio e definizione della realtà?
«Nonostante io parli molto, quando parlo sento che non riesco a dire tutta la verità, ma non perché non la voglio dire ma perché è come se nel linguaggio io non riesca ad arrivare alla mia verità, che per me è un mistero e sta in un silenzio. La mia verità sta dentro di me ed è quello che mi dice la mia coscienza. Quindi per me la verità non sta nel linguaggio ma nella coscienza. Realtà e linguaggio per me sono due cose separate perché la realtà non può essere resa attraverso il linguaggio, almeno per quanto riguarda la realtà interiore di un singolo essere umano. Aggiungo che ognuno di noi, a mio avviso, ha la propria verità, quindi non può nemmeno esistere una verità assoluta. L’unica cosa interessante che si può fare quando si ha un dialogo, per esempio, è quella di ascoltarci in maniera neutra e senza giudizio, anche se ti dicono delle cose astruse. Ascolti neutro, che è la cosa più interessante che tu possa fare per te, per la tua saggezza, per la tua energia, per la tua coscienza. Se poi quello che ti dice non ti risuona, non importa».
Usando tutto il corpo si può arrivare meglio all’espressione della realtà?
«Sì, il corpo è sostanziale».
E l’improvvisazione?
«Per me l’improvvisazione è quando tu riesci a far muovere il corpo senza dover pensare, senza decidere, e non c’è né uno studio né una tecnica, ma una comprensione, che è diverso. Una comprensione, una consapevolezza che mi è arrivata molto chiara, studiando danza Butoh tra il 2018 e il 2019. Ho capito che quell’intuizione era vera. La danza Butoh nasce in Giappone da Kasuo Ohno, vissuto sino a 103 anni, che ebbe un’intuizione di far danzare il corpo senza tecnica (l’esatto contrario della danza classica): è l’antidanza per eccellenza, essendo un lavoro interiore che punta sul corpo, corpo che va per i fatti suoi. Quindi una danza può anche essere che tu stai fermo, però c’è un lavoro dentro di te, e dal momento che c’è un lavoro dentro di te, il pubblico che ti guarda lo percepisce, perché l’energia esce dal tuo corpo e il pubblico rimane folgorato. Io l’ho vissuto. Il mio maestro di danza Butoh è stato Masaki Iwana. Di questa danza me ne servo anche per la recitazione perché per me la recitazione è entrare in meditazione, in cui testa, cuore e corpo sono un tutt’uno».
Quale lavoro nel mondo dell’arte ti ha reso più soddisfazioni?
«Stanze tirate a Lucido, per quanto riguarda il teatro.
Per quanto riguarda il cinema, il personaggio che ho interpretato in La coda del diavolo (2024, regia di Domenico De Feudis), che uscirà su Sky a novembre, con Luca Argentero».
Su quali tipi di personaggio preferisci impersonare?
«Mi interessa di più lavorare su caratteri molto diversi dal mio, però farei tutto, farei anche me stesso se me lo chiedessero».
Prossimi progetti?
«In questo momento sono disoccupato, quindi il prossimo progetto è quello che mi chiederanno di fare. Non mi mancano i soldi che ricavo dal recitare (nella vita sono anche educatore) ma mi manca quel nutrimento che mi dà la recitazione quindi spero che nel 2024 venga fuori qualcosa di cinematografico perché è ciò che vorrei fare».
Mara Boi