La caduta etica del populismo
di Giancarlo Pillitu
Si fa un gran parlare oggi di populismo. E’ ormai diventato la chiave di lettura dei fenomeni politici più significativi dei nostri tempi. Dalla Brexit all’elezione di Donald Trump a presidente degli USA. E potrebbe essere la chiave interpretativa anche del nostro Referendum costituzionale.
Ma in che cosa consiste il populismo? Si può tentare di rispondere a questa domanda analizzando tale fenomeno da diversi punti di vista: socio-economico, storico, etico-filosofico. Un esercizio sicuramente utile per comprendere la realtà sociale e noi stessi che ne facciamo parte.
In linea di massima, quando si parla di populismo, si pensa al “rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione” (citiamo dal vocabolario on line della Treccani, La cultura italiana). Tale definizione ci immette nell’analisi storica del fenomeno: è sufficiente riportare alla mente la crisi economico-sociale dell’Italia nell’immediato primo dopoguerra, quando rapidamente si passò dal “biennio rosso” al “biennio nero” e all’avvento del fascismo. La situazione di disorientamento politico, etico e culturale, mutatis mutandis, era molto simile all’attuale.
L’analisi sociologica, si pensi a quanto scrive Luca Ricolfi su “Il Sole 24 Ore” del 6 Novembre 2016, nell’articolo intitolato “Il cocktail populista tra crisi e paura”, individua le cause dell’ondata populista nella “crisi occupazionale” e nella paura (dell’immigrazione e soprattutto del terrorismo)” (pp. 1 e 21).
Noi preferiamo soffermarci su un tentativo di analisi etico-filosofica. Per semplificare il discorso, distinguiamo idealmente le seguenti quattro sfere della vita umana, individuale e sociale:
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ECONOMIA: è la sfera determinata dai bisogni;
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ETICA: è la sfera in cui si elaborano i valori (Hannah Arendt);
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POLITICA: è la sfera in cui si effettuano delle scelte collettive per rispondere ai bisogni (economia) sulla base di criteri, valori di riferimento (etica);
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MONDO COMUNE: è lo “spazio pubblico” (Hannah Arendt) in cui economia, etica e politica superano le loro prerogative e distinzioni per raggiungere una sintesi in una visione ideale che oltrepassa il presente e si proietta nel futuro, a favore anche delle generazioni a venire, seguendo il principio di responsabilità (Hans Jonas).
In tempi normali, il cammino dell’umanità, lo sviluppo delle società, dovrebbe articolarsi idealmente in tali fasi. L’elaborazione morale può essere intesa, seguendo la riflessione di Hannah Arendt in “Alcune questioni di filosofia morale” (Einaudi, Torino 2015), in due modi fondamentali e alternativi: a) come il frutto della contemplazione di valori eterni, le idee platoniche, attraverso un “organo speciale”, la nostra anima razionale, per sfiducia nella coscienza umana, che rischia sempre di smarrirsi nel relativo; b) come un “restare con se stessi”, secondo quanto suggerisce Socrate. In quest’ottica, la filosofa tedesca afferma: “Mi sono soffermata a lungo sulle dottrine platoniche per mostrarvi come stanno le cose – o meglio, come dovrebbero stare – se non vi fidate troppo della coscienza umana” (pp. 47-48). E aggiunge: “Secondo Socrate non c’è bisogno di alcun organo speciale [“che svolga la stessa funzione dell’occhio che contempla le cose visibili e mondane” (p. 50)], perché basta restare con se stessi, senza ricorrere a qualche istanza trascendente o comunque esterna a noi stessi, colta con gli occhi dello spirito, che ci informi su ciò che è giusto e ciò che non lo è. […] E se siamo in conflitto con noi stessi, è come se dovessimo vivere e passare le nostre giornate con il nostro peggior nemico” (p. 50). L’elaborazione etica, ovvero il pensare e il ricordare, secondo la Arendt, sono attività che seguono la via socratica del “parlare con se stessi” (p. 50) in un incessante dialogo, piuttosto che quella platonica della contemplazione razionale di valori assoluti ed eterni.
Il “mondo comune” di cui ci parla l’allieva di Martin Heidegger è ben descritto da Mario Perniola in “Miracoli e traumi della comunicazione” (Einaudi, Torino 2009): “Una vita che vale la pena di essere vissuta è quella che lotta per qualcosa che va al di là della nostra esistenza singola, come l’antichità classica non meno che la modernità occidentale hanno insegnato. Dal Sessantotto a oggi molti hanno dedicato tutto il loro tempo e le loro energie per mantenere l’esistenza di un mondo comune, che comprende – come dice Hannah Arendt – coloro che sono vissuti prima di noi e coloro che vivranno dopo di noi” (p. 119). Perniola contrappone il “mondo comune”, lo “spazio pubblico”, al “mondo della comunicazione”, “non solo perché questo è effimero e istantaneo, ma anche perché è irremovibilmente risoluto a confondere tutto con tutto” (pp.119-120).
Ma che cosa accade in tempi di crisi? Avviene uno scavalcamento delle fasi più qualificanti dell’umanità, ovvero dell’etica e del “mondo comune”, per cui i bisogni (l’economia) dettano le scelte (politica) senza la mediazione dei valori (etica) e senza una prospettiva che vada oltre il presente immediato e tenga conto responsabilmente delle generazioni future (mondo comune). Tale è il fenomeno del populismo: la mancata elaborazione etica, nel presente e per il futuro, dei valori sulla base dei quali decidere politicamente in vista di un mondo comune. Ciò che viene a mancare è il socratico (più che platonico) dialogo dell’anima con se stessa, ovvero il pensiero. Il pensiero, sostiene la Arendt, è un’attività, che in quanto tale si differenzia dalla sensibilità e dall’attenzione per i prodotti più elevati dello spirito, sensibilità e attenzione che invece costituiscono una forma di passività che può caratterizzare intellettuali e individui di cultura, incapaci tuttavia di pensare e ricordare e, per tale motivo, capaci invece di commettere i crimini più atroci: “Lasciate infine che vi riporti alla mente quegli assassini del Terzo Reich che non soltanto conducevano una normalissima vita familiare, ma passavano inoltre il proprio tempo a leggere Hӧlderlin e ad ascoltare Bach, provando (se c’è ancora bisogno di prove) che anche gli intellettuali possono tranquillamente precipitare nel crimine al pari di tutti gli altri. […] Il problema, con questi dotti ed eruditi assassini, è invece che nessuno di loro ha mai prodotto una poesia degna di questo nome, o un brano musicale degno di questo nome, da appendere magari alle pareti di casa propria” (H. Arendt, Op. cit., pp. 56-57).
Il fenomeno che Hannah Arendt descrive con l’espressione “perdere la capacità di parlare con se stessi” (p. 55), viene definito “disimpegno morale” dallo psicologo Albert Bandura, che lo considera un meccanismo di “deumanizzazione”. In questo senso, il populismo, che ci piaccia o meno, è appunto una manifestazione molto preoccupante di un processo di “deumanizzazione”, ovvero della caduta etica dell’uomo.
Abbiamo iniziato a scrivere il presente articolo ignorando l’esito del voto referendario. Lo concludiamo sapendo della schiacciante vittoria del “no”. Ci chiediamo quindi come debba essere interpretata tale vittoria. Si tratta dell’ulteriore affermazione del populismo, in considerazione del fatto che lo schieramento del “no” aveva al suo interno il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo e la Lega Nord di Matteo Salvini (formazioni politiche notoriamente considerate espressione del populismo)? Oppure è la risposta di un popolo sostanzialmente conservatore alle sollecitazioni riformiste di un leader che ha peccato di hỳbris (qualcuno la definirebbe arroganza!)? Noi preferiamo pensare che si sia compiuto il miracolo dell’uscita, almeno temporanea, dal “disimpegno morale”, ovvero del recupero della capacità di elaborazione etica, conquista mai definitiva, attraverso quello che Hegel chiama il “travaglio del negativo”, un travaglio indubbiamente stimolato (e questa sarebbe una nota di merito) dalla tracotante politica renziana.