La missione di Claudio e Tiziana

di Sandro Bandu
Da quasi vent’anni, precisamente dal 2006, Claudio Salis decimese doc, ha contratto la sindrome del mal d’Africa. Ne avevamo già parlato in un articolo sul Vulcano n. 67 nel lontano 2010 e pensavamo che la sindrome del mal d’Africa, con il passare degli anni, sarebbe guarita o almeno scemata.
Niente di tutto ciò, anzi, adesso Claudio ha contagiato la sindrome anche alla moglie Tiziana Corda e a quanto pare non c’è rimedio, non c’è guarigione.
Per loro ormai è una missione, è un dovere recarsi almeno uno o due volte in Africa, percorrere oltre 10mila km per portare vestiario e soldi in un orfanotrofio keniota che si trova nella Contea di Kilif a circa 10 chilometri da Malindi, località costiera nota per le sue spiagge e strutture turistiche di grande prestigio.
Ciao Claudio, quando sono iniziati i tuoi viaggi in Kenya?
Tutto ebbe inizio nel 2006, quando alcuni amici, tra cui Floriano, un medico di Siliqua che purtroppo dopo alcuni anni è scomparso a causa di una leucemia, mi invitarono a visitare il Kenya per una vacanza. Fu un’esperienza fulminante in tutti i sensi: visitai un continente nuovo per me, pieno di colori, sapori e fragranze particolari ma anche di contradizioni micidiali: alloggiavamo nella nostra struttura alberghiera di lusso che aveva ogni tipo di confort ed era popolata da noi turisti occidentali benestanti, ma se ti spostavi anche di pochi chilometri vedevi la vera povertà incredibile e indicibile per chi non la vede e tocca con mano.
Come fu quella prima volta?
Ormai sono passati quasi vent’anni e con quei quattro amici ci recammo in Kenya per un safari, tutto andava alla perfezione, ma un giorno un ragazzo del posto, Diskson Chipira, ci portò a visitare alcune scuole, l’impatto fu devastante: le classi erano composte da almeno 50 bambini, i banchi da due posti erano occupati da tre o quattro alunni che non avevano scarpe e talvolta neanche la maglietta, i pavimenti non avevano le piastrelle, gli infissi non esistevano, la corrente elettrica era un optional. Non credevamo ai nostri occhi e quasi ci vergognavamo per i nostri vestiti e le nostre scarpe ultra costose. Da lì decidemmo tutti insieme di fare qualcosa per questa popolazione: contattammo un falegname locale, il quale, nell’arco di due anni, realizzò circa 400 banchi che dedicammo al nostro caro amico decimese Bruno Dessì, scomparso prematuramente, qualche anno prima, in seguito a un tragico incidente stradale a Torino. Inoltre negli anni successivi inviammo alla direttrice della scuola oltre 3000 euro, pensate che lo stipendio medio di un’insegnante era di poco più di 50 euro al mese, mentre la direttrice percepiva poco di più. Da quell’anno non ho mai perso l’appuntamento con il Kenya, escludendo, naturalmente, il biennio della pandemia del Coronavirus.
Torniamo a tempi nostri, e chiedo alla moglie Tiziana perché anche lei ha deciso di accompagnare il marito in Africa.
Claudio mi ha sempre raccontato i suoi viaggi, che un po’ mi affascinavano ma nel contempo mi rattristavano e mi lasciavano il magone per alcuni giorni. Adesso però non si va più in quella scuola di cui Claudio vi ha parlato, ma in una cittadina vicina, nella Contea di Kilif, dove vi è un orfanotrofio e dove vi è più necessità. Questo orfanotrofio è gestito dalla signora Agnese che deve badare a circa 40 bambini orfani, o di famiglie poverissime, che vanno da un’età di pochi mesi a 13 anni, quando terminano la scuola secondaria.

La signora Agnese da chi viene aiutata?
Poche persone collaborano con la signora Agnese, forse due signore che si alternano e un cuoco che cucina sempre lo stesso piatto, un impasto di riso mischiato alla farina, e questo deve bastare per tutti. Anche i bambini di pochi mesi, che non riposano nelle comode culle che noi conosciamo ma in materassi posizionati sul pavimento, vengono nutriti con riso schiacciato e imbevuto d’acqua, la direttrice, o la sua collaboratrice, glielo portano in bocca e i bimbi succhiano il loro dito; forse questi poveri bambini non hanno mai assaggiato il latte. Per me è stata un’esperienza traumatica che mi ha lasciato il segno ma che mi ha fatto capire quali sono le vere necessità del nostro pianeta.

Ma oltre voi chi aiuta questo orfanotrofio?
Qui vengono saltuariamente altri turisti che portano un po’ di tutto, altri aiuti arrivano dai mercati delle cittadine vicine che regalano merce come verdura o frutta che però, molto spesso, è quella che non si vende perché è stantia o addirittura marcia e perciò è invendibile, ma per questi bambini è oro perché si rischia di rimanere senza mangiare.
Dopo la scuola secondaria che fine fanno i bambini?
Chi ce l’ha rientra in famiglia, mentre gli altri vengono affidati ad altre famiglie ma non si sa che fine fanno veramente.
Tiziana, dopo questa esperienza che hai descritto e che hai detto ti ha colpito nell’anima, in Kenya ci tornerai?
Senza dubbio, l’Africa e questo orfanotrofio mi sono entrati nel cuore: sarà poco, sarà una piccola goccia in un mare di necessità, ma io lì ci voglio tornare per dare il mio piccolo e umile contributo per aiutare questa povera gente.