Le due memorie della Shoah. Ripartire da Lévinas
di Giancarlo Pillitu
Il presente intervento nasce da alcuni interrogativi, che possono apparire banali, scontati: che cosa ricordare nel “Giorno della Memoria”? Perché ricordare? Che tipo di memoria siamo invitati (ma si tratta di un vero e proprio imperativo morale!) ad esercitare e a coltivare a partire dalla giornata celebrativa del 27 gennaio?
Le risposte alle prime due domande sono abbastanza semplici, se si seguono i discorsi istituzionali e commemorativi: dobbiamo ricordare gli errori compiuti nel passato relativamente recente (errori del pensiero, ovvero delle ideologie: antisemitismo, razzismo; conseguenti errori dell’agire: leggi razziali, campi di concentramento e di sterminio, guerra, Shoah), per poterli evitare nel presente e nel futuro.
Ma che tipo di memoria viene attivata da tale imperativo morale? Si tratta di una memoria fondamentalmente “negativa”, poiché ci ricorda non tanto quel che dovremmo pensare e fare, quanto piuttosto quel che non dovremmo più pensare e fare, gli errori (tragici) che non dovremmo più commettere, che dovremmo assolutamente evitare.
Tale memoria negativa si fonda su un presupposto: l’assunzione del punto di vista dei persecutori, dei carnefici, dei malvagi o, nel migliore dei casi, degli irresponsabili, dei collaborazionisti, degli ignavi, dei fautori della “banalità del male”, per citare la filosofa della politica Hannah Arendt.
Naturalmente, tale memoria negativa non è immediatamente operativa: prova ne sia la difficoltà che dimostriamo nell’elaborazione di un atteggiamento più conseguente, ovvero più responsabile nei confronti dell’altro uomo, quando si tratti gestire i flussi migratori (momento politico) e di accogliere i migranti (momento etico): tendiamo a ricadere negli errori del passato: costruiamo muri, chiudiamo i porti.
Si può anticipare che, probabilmente, una memoria “positiva” (e quindi autonoma), piuttosto che una memoria negativa (e pertanto eteronoma), sarebbe più facilmente convertibile in una memoria operativa.
Ma è possibile recuperare anche una memoria “positiva” della Shoah, oltre quella negativa? Una memoria positiva che testimoni la sopravvivenza della dignità umana nel bel mezzo della disumanizzazione imperante, della distruzione del mondo, della fine della storia alle quali sembravano ormai destinati non solo il popolo ebraico, ma l’umanità nel suo insieme?
Per rispondere a questa ulteriore domanda, occorre cambiare punto di vista, e immedesimarsi nei perseguitati, nelle vittime, negli innocenti.
Come fare? E’ necessario trovare una guida che dia voce a chi ha vissuto l’esperienza-limite dei campi di concentramento, ovvero alle vittime, ebrei e non-ebrei, e la sappia interpretare per noi, così distanti da quella immane tragedia.
La voce-guida alla quale ci si può affidare è quella del filosofo ebreo-lituano Emmanuel Lévinas (Kaunas, 1905/6-Parigi, 1995)², che in un brevissimo scritto sgnificativamente intitolato “Senza Nome”³, a conclusione di una raccolta di testi paradossalmente intitolata Nomi propri (1976), enuncia tre verità che sono emerse nei campi di concentramento⁴.
La prima verità ci insegna che “Per vivere in maniera umana, gli uomini hanno bisogno di molto, ma molto meno, rispetto a ciò che offrono le magnifiche civiltà in cui vivono […]”: “Si può fare a meno di pasti e di riposo, di sorrisi e di effetti personali, di decenza e del diritto di girare la chiave della propria camera, di quadri e di amici, di paesaggi e di congedi per malattia, d’introspezione e di confessioni quotidiane “ (N.P., p. 156). Dal deserto al ghetto e dal ghetto allo “spazio-ricettacolo” della coscienza: questo è il cammino della Shoah, della “tempesta devastante”, che ha proceduto per sottrazione. “Per vivere in maniera umana” è sufficiente la “vita interiore”.
Ma qual è il contenuto di tale “vita interiore”? La seconda verità: nello spazio-ricettacolo della coscienza si salvano il senso dell’umano e i “valori di pace”, perché protetti nel rifugio pacifico della coscienza, che resiste alla disintegrazione del mondo e della storia. “[…] tutta la dignità umana consiste nel credere al loro ritorno [dei “valori di pace”]. Il supremo dovere, quando ‘tutto è permesso’, consiste nel sentirsi già responsabili nei confronti di quei valori di pace” (Ib., p. 157).
Infine, la terza verità, il dovere della testimonianza: “insegnare alle generazioni nuove la forza necessaria per essere forti nell’isolamento e tutto ciò che una fragile coscienza è in quel caso chiamata a contenere […], “comportarsi in pieno caos come se il mondo non si fosse disintegrato” (Ivi). In una parola, insegnare la “Resistenza”, nel suo pieno significato, che coincide col significato della “vita interiore”.
La memoria positiva della Shoah (vita interiore, responsabilità, resistenza e insegnamento della forza della resistenza) consiste, dunque, nella riscoperta della vita interiore, come chiave di volta dell’autentica “Resistenza”, anche se, come precisa Lévinas, “si ha quasi vergogna a pronunciare, davanti a tanti realismi ed oggettivismi, quest’espressione insignificante” (Ivi).
Tale memoria positiva, più facilmente di quella negativa, può forse tradursi in una memoria non solo commemorativa, ma anche operativa, proprio perché fondandosi sulla vita interiore, risulta autonoma, a differenza della memoria negativa, che si caratterizza come eteronoma, in quanto è mossa da esteriori precetti istituzionali.