L’immigrazione come inconsapevole strumento geopolitico
Proviamo, senza rinunciare al rispetto e alla compassione, a vedere il fenomeno dell’immigrazione nei suoi aspetti politici, economici e strategici
di Gianni Rallo
La maggior parte delle grandi emergenze storiche non possono essere comprese nella loro vera natura se, specialmente oggi, non le si colloca in una corretta prospettiva globale. Nulla accade, insomma, che sia solamente frutto di dinamiche locali. Affermazione certamente ovvia per chi sia avvezzo ad individuare e connettere elementi apparentemente lontani ed estranei fra loro, ma comunque essenziale, soprattutto per capire davvero e mettersi nella condizione di immaginare possibili soluzioni dettate dal realismo più che dal-la rabbia, dalla paura, dall’egoismo o dall’emozione (sapientemente manovrata dai media, peraltro). Uno di questi temi è certamente l’immigrazione. Ora, messa da parte solo per un momento la profonda emozione e la giusta compassione che non può non suscitare la vista di masse di disperati disposti alla morte pur di ritrovare una speranza di vita migliore, vediamo di prendere alla lontana il problema e di abbozzare un quadro geopolitico ed economico-sociale all’interno del quale egli trovi una collocazione teoricamente sensata.
E’ necessario, per questo, partire dalla corretta interpretazione di due termini, spesso usati come sinonimi: globalizzazione e mondializzazione. La globalizzazione consiste nella libera circolazione di uomini, merci, capitali ed idee; in questo senso semplificato essa è da sempre esistita: nel corso della sua lunga storia l’umanità si è distribuita più o meno omogeneamente sulla Terra, creando un certo numero di aree dalla cultura e dalla storia del tutto non assimilabili ad altre, certo, ma incontrandosi e scontrandosi o mescolandosi, commerciando e trattando, trasmettendosi pensiero, idee, scoperte, tecniche, etc.; tuttavia mai, come oggi, arrivando in massa in territori densamente popolati, all’ombra di una legislazione internazionale che ne impone l’accoglimento, in un momento di drammatico sconquasso sociale ed economico che quell’accoglimento “forzato” aggrava in modo intollerabile, suscitando reazioni di rifiuto primordiali e istintive. Il mondo è, insomma, ormai “pieno”, nessun luogo è “terra di nessuno” e qualunque spostamento di masse all’interno di questo spazio “pieno” non può che generare conflitti. Diciamo subito per chiarezza che non si tratta, qui, di mettere in discussione i sacrosanti valori cristiani di accoglienza e amore per il prossimo o il dovere civile di soccorrere i propri simili in difficoltà, i bambini, le donne, etc. Tutto questo è ovvio e nessuno, penso, può restare di ghiaccio davanti a certi spettacoli.
Qui si tratta di capire l’origine moderna di tutto ciò e gli scopi precisi di chi manovra questo traffico di esseri umani, vittime innocenti di un massacro programmato, come tanti nella storia anche recente. Parlavamo dunque di globalizzazione e di mondializzazione. L’affermarsi ai primi del Novecento della produzione di scala – un numero infinito di pezzi ad un costo bassissimo mediante un forte investimento finanziario in macchinari specifici – ha imposto al dio profitto la necessità assoluta di creare un mercato globalmente omogeneo in grado di assorbire continuativamente queste merci, moltissime delle quali rispondono a bisogni non reali ma indotti dalle abilissime strategie di marketing. Ecco che la globalizzazione, già imposta dalle leggi internazionali, necessita, per diventare mondializzazione, di un terzo elemento: l’esistenza di un mercato globale dove le imprese (multinazionali, perlopiù) possano piazzare i propri pro-dotti in modo da trarre i maggiori benefici possibili dal rapporto investimento/profitto.
Creare un mercato del genere presenta, però, serie difficoltà: le usanze, i gusti, le concezioni della vita e quelle religiose, il rapporto fra i sessi, i bisogni legati al diverso habitat e mille altri motivi rendono difficile vendere a tutti uno stesso prodotto. La soluzione pensata dai cervelloni che comandano il mondo è stata semplice: distruggere le identità culturali (nel senso più ampio) e gli stessi Stati per sostituirli con masse amorfe, “adducate” (cioè guidate abilmente e inconsapevolmente) verso cliché e standard, o anche idee politiche, omogenei, prive di memoria e di senso critico, smaniose di soddisfare in modo continuo e crescente i “bisogni” che il marketing rivela loro di avere. Qui sta il punto: le migrazioni forzate e gestite per scopi politici ed economici. Prima di cercare di delineare quali siano questi scopi, proviamo a paragonare gli attuali flussi migratori con quelli del primo Novecento diretti verso gli Stati Uniti. In quel periodo l’econo-mia Usa era in fortissima crescita e forte era l’interesse dell’industria ad avere manodopera costretta ad accettare salari più bassi di quelli che i sindacati americani riuscivano a spuntare. Vennero allora fondate specifiche agenzie di navigazione (per es. dagli onnipresenti Rothschild, cosa che pochi sanno) per gestire e incoraggiare (tramite “scafisti” ante litteram, insomma) questi flussi e, quando i possibili migranti non di-sponevano del denaro sufficiente, il viaggio veniva loro offerto in cambio di un salario più basso fino al risarcimento della cifra anticipata. Gli effetti (fra tutti gli altri) di questa operazione furono di scatenare l’ira dei lavoratori americani verso quegli immigrati, per l’ovvio abbassarsi dei livelli salariali e per il crescere della disoccupazione e l’aumento a dismisura dei profitti delle fabbriche. Effetti tipicamente economici, quindi.
Gli odierni esodi avvengono invece autonomamente, in seguito a situazioni di guerra, degrado ed estremo pericolo che rendono impossibile condurvi una qualunque quotidianità. Lasciamo stare che le situazioni descritte sono opera dei precisi interessi dell’Occidente sulle risorse e la posizione strategica dell’area (il che spiega lo speciale accanimento contro l’Iran, ricco di petrolio e in posizione di assoluto controllo strategico) e che i bombardamenti continui e indiscriminati, da qualsiasi parte vengano, non sono considerati, almeno fino ad oggi, condizione ideale per una tranquilla vita familiare. Fatto sta che masse di diseredati, non po-tendo più vivere in terre già difficili per arretratezza, particolarità del suolo e continua presenza coloniale straniera, si muovono alla rinfusa verso l’eldorado europeo, tutti stranamente convogliati sulla stesse rotte, dotati di giubbotti (quando va bene), messi in mare su barconi appositamente costruiti e dotati degli stessi motori occidentali. Le domande sono: davvero questo scempio non si può fermare? C’è qualcuno a cui questa situazione giovi? C’è una mano organizzatrice occidentale dietro tutto questo? O un disegno più ampio, non solo economico, che si avvale di questo doloroso strumento? Cerchiamo di rispondere elencando alcuni degli effetti a cui non sempre si pensa:
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acquisizione selettiva di manodopera a basso prezzo laddove le macchine non possono ancora sostituire l’uomo (il politico lussemburghese è stato chiaro con Salvini su questo aspetto): i Paesi europei, specie quelli del Nord, tendono a tenersi gli elementi più validi e scolarizzati e rimandare gli altri nei Paesi di approdo (fra cui l’Italia); si tratta della classica massa di manovra di marxiana me-moria, grazie alla quale si abbassano i salari e si crea la disoccupazione (da sempre utile strumento di ricatto): una motivazione economica, dunque;
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l’austriaco InfoDirekt (un periodico notoriamente vicino alle forze armate) dice di avere appreso da un rapporto interno dello ‘Österreichischen Abwehramts’ (i servizi d’intelligence militari di Vienna) che sarebbero gli Stati Uniti a finanziare il traffico di migranti africani dalla Libia verso l’Italia. Secondo il periodico, da parte dei servizi “Si è intuito che organizzazioni provenienti dagli Stati Uniti hanno creato un modello di cofinanziamento e contribuiscono a gran parte dei costi dei traf-ficanti”. Sarebbero “le stesse organizzazioni che hanno gettato nel caos l’Ucraina un anno fa”. Evi-dente allusione alle “organizzazioni non governative” americane, cosiddette “umanitarie” e per i “di-ritti civili”, bracci del Dipartimento di Stato o di Georges Soros. Questa strategia, oltre a far nascere parecchi dubbi sulla reale natura umanitaria di certe ONG, mette in evidenza la cosiddetta “strategia del caos”, cioè il caos indotto utilizzato per destabilizzare aree che si vogliono tenere sotto controllo, in questo caso l’Europa: una spinta geostrategica della barcollante economia Usa;
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una manifestazione drammaticamente evidente delle fortissime tensioni esistenti in Libia fra Italia e Francia per l’accaparramento delle risorse del Paese; ma anche un tangibile effetto dell’inserimento Usa, in opposizione a quello russo, in quella questione come in tutte le altre questioni mediterranee e mediorientali in atto; una odiosa forma di neo-colonizzazione dunque;
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infine (per non tirare per le lunghe una tematica estremamente complessa e con impensabili possibili ramificazioni), ricordando la faccenda della distruzione delle identità nazionali e degli stessi Stati nazionali come scopo fondamentale della mondializzazione in corso, costringere diverse civiltà a incontri/scontri forzati e drammatici, a tentare “inclusioni” che somigliano sempre più a “ghettiz-zazioni”, a convivere e a cedere diritti a persone percepite come “nemici”, o “intrusi”, o “ladri di la-voro” e quant’altro significa, di fatto, incrinare la saldezza originaria della propria identità, dell’una e dell’altra parte, preparando un multietnismo caotico e senza una reale integrazione (in stile Usa), terreno di coltura di una nuova solitudine individuale, condizione ideale per il mercato globale di cui si parlava. Quest’ultimo punto meriterà una trattazione più articolata in un prossimo intervento.
Bibliografia di riferimento:
Ragni Lello, Il mondialismo capitalista, Edizioni dell’uomo libero, 1992
Glasser Ralph, La manipolazione del consumatore, Franco Angeli/La società, 1976
Jean Carlo, Guerre umanitarie. Le militarizzazione dei diritti umani, Dalai editore, 2012
De Benoist Alain, Populismo. La fine della destra e della sinistra, Arianna Editrice, 2017
Galimberti Umberto, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, Il Saggiatore, 1996
Castoriadis C., Lasch C., La cultura dell’egoismo, Elèuthera, 2014
Vulcano n° 97