Sanità ed educazione in Sardegna, il ruolo della leadership e consapevolezza di ognuno
Tutti, in qualche momento della vita, abbiamo avuto a che fare con disagi o difficoltà legati a una cattiva gestione o a una totale mancanza di empatia.
Che si tratti di un incontro frustrante con il servizio clienti, di un’esperienza negativa in ospedale o della percezione che, in certi momenti, i nostri bisogni vengano trascurati, è facile provare un senso di frustrazione e impotenza di fronte a queste situazioni.
Quando chi è in una posizione di responsabilità non riesce a comprendere appieno le esigenze della collettività, le ripercussioni non riguardano solo una singola persona, ma l’intera comunità. E quando questo accade in contesti tanto sensibili come la sanità e l’istruzione, gli effetti sono ancora più gravi e difficili da ignorare.
Un esempio tangibile di questa disfunzione si manifesta nella situazione sanitaria in Sardegna, in particolare nel Medio Campidano. Recentemente, i sindaci della zona hanno sollevato un grido d’allarme, sottoscrivendo una lettera aperta per chiedere un incontro urgente con l’assessore regionale alla sanità e con i vertici dell’ASL.
La loro denuncia riguarda la chiusura delle guardie mediche durante le festività, l’inadeguatezza dei servizi e la crescente difficoltà nel garantire un’assistenza adeguata. Queste problematiche non sono una novità per chi vive nella regione, ma sono emerse con ancora maggiore chiarezza durante l’emergenza sanitaria degli ultimi anni.
La gestione delle risorse sanitarie, purtroppo, non sembra rispecchiare il bisogno di un’ isola che ha già dovuto fare i conti troppo spesso con carenze strutturali e organizzative.
Io stesso, in qualità di paziente, ho avuto modo di toccare con mano le difficoltà che il sistema sanitario sardo è costretto ad affrontare, vivendo in prima persona la delusione di una sanità che, pur avendo le risorse, non riesce a offrire un servizio all’altezza delle aspettative e delle necessità urgenti.
Ma il problema non si limita alla sanità. L’educazione pubblica sta vivendo una crisi simile. La Sardegna, purtroppo, sta facendo i conti con una progressiva chiusura di scuole e la riorganizzazione della rete scolastica, che ha portato alla soppressione di nove autonomie scolastiche in tutta l’Isola, una per provincia. La Sardegna sta affrontando una riduzione dei servizi, che colpisce in modo diretto le aree più fragili.
Le difficoltà che caratterizzano l’offerta formativa non solo creano un disagio nel percorso accademico degli studenti, ma anche tanta amarezza e senso di sconfitta negli insegnanti, così come un crescente malcontento tra i genitori.
Un aspetto critico oltre alla qualità e alla carenza di manutenzione delle strutture, è rappresentato dalla distribuzione degli istituti scolastici: i licei sono concentrati prevalentemente nella città di Cagliari o nelle sue immediate vicinanze, rendendo l’accesso complesso per chi vive in altre aree, aggravato da un sistema di trasporti spesso inadeguato sia in ambito urbano che rurale.
Nei centri più piccoli, invece, si registra una prevalenza di scuole tecniche, una scelta che sembra limitare le opportunità educative, come se in queste comunità non fosse altrettanto importante formare figure pronte a ricoprire ruoli di guida e innovazione. È evidente che un’offerta più equilibrata e accessibile potrebbe non solo rispondere alle necessità del territorio, ma anche ridurre le disuguaglianze percepite.
Questo dato drammatico si inserisce in un contesto più ampio, segnato dal costante aumento della dispersione scolastica e dalla perdita di circa il 17% degli studenti in Sardegna negli ultimi dieci anni. (Fonti: Istat, Openpolis)
Tristemente una grande fetta dei giovani sardi non prosegue gli studi oltre la scuola secondaria di primo grado, un fenomeno noto come abbandono scolastico precoce. Questo tasso è superiore alla media nazionale e rappresenta una sfida significativa per il sistema educativo della regione.
Anche in questo settore, l’indifferenza e la mancanza di una visione chiara da parte di chi detiene il potere politico ed amministrativo stanno mettendo a rischio il futuro delle nuove generazioni.
Come formatore, ho avuto modo di osservare da vicino questa realtà e constatare che, nonostante gli sforzi di molti insegnanti e dirigenti scolastici, la carenza di risorse e il contesto di incertezza continuano a penalizzare i giovani studenti.
Queste problematiche sollevano una domanda fondamentale: chi detiene il potere in una società è davvero consapevole dell’importanza del proprio ruolo?
È chiaro che la responsabilità non è un concetto astratto, ma una forza concreta che si traduce in azioni e scelte quotidiane. Le decisioni politiche e amministrative influenzano in modo diretto la vita delle persone, e chi ricopre ruoli di responsabilità ha il dovere di garantire che le risorse vengano gestite in modo equo e trasparente. Eppure, troppo spesso, le scelte compiute da chi è al vertice sembrano rispondere più a logiche di interesse che a un autentico impegno verso il bene comune.
Non è raro sentirsi sopraffatti dalla sensazione di essere lasciati soli ad affrontare i disagi di una società che, troppo spesso, sembra gestita senza visione e senza cura. Dalla sanità all’istruzione, fino ai servizi essenziali, ciascuno di noi ha probabilmente vissuto esperienze che lasciano l’amaro in bocca: file interminabili in ospedale, strutture fatiscenti, scuole chiuse o risorse insufficienti per garantire un’educazione dignitosa.
In questi momenti, è naturale chiedersi: chi ha il potere di cambiare le cose? E perché non lo fa? È innegabile che le maggiori responsabilità ricadano su chi guida le istituzioni, chi gestisce i bilanci, chi prende decisioni che influenzano migliaia, se non milioni, di vite. Essere al vertice non è solo un privilegio: è un dovere morale, una chiamata ad agire con visione e lungimiranza per il bene collettivo. Le scelte (o le mancate scelte) di chi detiene il potere politico e amministrativo hanno ripercussioni enormi. Una cattiva gestione o, peggio, l’indifferenza, non solo aggravano i problemi della comunità, ma lasciano ferite che richiedono anni per essere sanate.
Eppure, parlare di responsabilità non significa ignorare le difficoltà di chi vive ai margini o affronta turni massacranti con stipendi che a malapena coprono le spese. È un dato di fatto: con la “pancia vuota” è difficile trovare la forza di pensare al bene comune. Per questo motivo, il cambiamento deve partire proprio da chi ha gli strumenti e il potere di intervenire: amministratori, politici, dirigenti. Questi leader devono comprendere che ogni decisione presa – o rimandata – influisce direttamente sulla qualità della vita delle persone. Bisogna vedere oltre i bilanci e le logiche di convenienza immediata, cogliendo l’importanza di agire con empatia, coraggio e visione.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare il ruolo che ciascuno di noi, in misura diversa, può svolgere.
Non per attribuire colpe o gravare sulle spalle di chi già lotta ogni giorno per arrivare a fine mese, ma per riconoscere che la partecipazione di tutti è essenziale. La società non è fatta solo di leader e amministratori: è un intreccio di relazioni, azioni e scelte, grandi e piccole, che ci coinvolgono tutti.
Quando ci impegniamo a rispettare le regole, a sostenere la comunità, a educare con cura i nostri figli o semplicemente a fare bene il nostro lavoro, stiamo contribuendo a costruire una realtà più giusta e coesa.
Ecco perché è importante non cadere nella tentazione di rassegnarsi o di credere che il cambiamento sia impossibile.
Se è vero che chi ricopre ruoli di potere ha una responsabilità enorme – e deve essere chiamato a risponderne – è altrettanto vero che una società più giusta si costruisce con l’impegno congiunto di tutti. Ogni gesto conta, ogni piccola azione può fare la differenza.
Ma torniamo a chi guida e decide. Se sei un dirigente, un amministratore o un politico, sappi che il tuo operato lascia un segno profondo, nel bene e nel male.
Non stiamo parlando di astratti ideali, ma di vite concrete: famiglie che soffrono per la mancanza di assistenza sanitaria, giovani che abbandonano la scuola perché si sentono lasciati indietro, comunità che lottano per mantenere viva la propria identità.
Il tuo impegno, o la tua negligenza, non sono solo una questione di carriera. Sono il metro con cui verrà misurato il futuro della tua comunità e forse anche il benessere della tua stessa famiglia.
Non è mai troppo tardi per cambiare rotta. Investire nelle persone, pensare a lungo termine, scegliere il bene collettivo rispetto agli interessi di parte: questa è la vera leadership di cui abbiamo bisogno, che ispiri, guidi e costruisca un futuro migliore per tutti.
Alla fine, il messaggio è chiaro: anche se ognuno di noi ha il dovere di sostenere e chiedere un cambiamento concreto, con i mezzi che ha a disposizione, le scelte di chi guida la comunità sono decisive.
È solo con una presa di coscienza che possiamo affrontare le sfide del futuro e costruire qualcosa che vada oltre le promesse.
Emanuele Mulas