Un cane sciolto alla presidenza USA: che qualcosa cambi davvero?
Certo, se il buon giorno si vede dal mattino, il programma di Trump potrebbe cambiare la storia mondiale. Ma non tutti i giorni finiscono come sono cominciati, e anche i cani sciolti si possono addomesticare.
di Gianni Rallo
Il 20 gennaio 2017 Donald Trump sarà di fatto il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Come altre volte nella storia recente, questo evento potrebbe costituire un’autentica svolta nel ruolo mondiale degli Usa. Dico “potrebbe” perché i giochi non sono ancora del tutto fatti, e le regole potrebbero cambiare prima di quel giorno.
Il tema, come è facile immaginare, è molto più complesso di quanto possa apparire al senso comune e, per meglio capire, converrà evidenziare le questioni, a mio parere, centrali che ci obbligano, intersecandosi, a registrare tale complessità. Vediamo dunque, in sequenza, i seguenti aspetti:
1. il programma annunciato dal neo-presidente e i suoi possibili risvolti politico-economici;
2. il programma proprio, invece, di Hillary Clinton, in linea con quanto finora accaduto;
3. le reazioni di alcuni leader mondiali alla notizia della vittoria di Trump;
4. il significato della vittoria di Trump alla luce di specifici e trascurati segnali politici.
1. Parlare del programma annunciato da Trump – tralasciando gossip, pettegolezzi, piccolezze di ogni genere alle quali il personaggio certo si presta – significa toccarne i due punti fondamentali: l’economia e la politica. Nel suo discorso del 22 novembre a Gettysburg, partendo da dati economicamente disastrosi per la società americana (70.000 fabbriche perse nel settore manifatturiero, con relativi 5 milioni di posti di lavoro, per via della concorrenza straniera grazie all’off-shoring, al Nafta e ad altri accordi commerciali firmati dai democratici; la manutenzione e la costruzione di infrastrutture allo sbando, l’agricoltura in ginocchio, la classe media in progressivo impoverimento per via di una globalizzazione disastrosa, i costi militari all’estero in crescita esponenziale, etc.), Trump propone alcune misure di tipo decisamente conservatore e “isolazionista” (vedremo più avanti cosa questo significhi) allo scopo di far ripartire l’economia americana:
– rimettere in discussione i trattati commerciali non convenienti per gli Usa (ad es. il Nafta) o uscirne;
– ritirarsi dal TPP (Trans-Pacific Partnership) e dal famigerato TTIP (Transatlantic Trade and investment partnership), l’accordo commerciale di libero scambio tra UE e Usa, entrambi considerati rischiosi per l‘economia statunitense in quanto anche gli Usa dovrebbero a loro volta aprire le frontiere ai prodotti esteri;
– intraprendere azioni di contrasto nei confronti della Cina, accusata di manipolare la propria valuta al fine di esportare sottocosto;
– tornare al rispetto della Costituzione americana abolendo tutte le leggi riconosciute incostituzionali promosse dai precedenti governi (come alcuni aspetti dell’Obamacare, il piano sanitario voluto da Obama e, a quanto pare, fallito al punto da accrescere enormemente il debito pubblico);
– rendere gli Usa energeticamente autonomi sfruttando ogni possibile fonte di energia, annullando i vincoli ecologici (voluti da Obama) ma creando milioni di posti di lavoro;
– di conseguenza, utilizzare per migliorare le infrastrutture idriche e stradali Usa i fondi altrimenti destinati all’Onu per i cambiamenti climatici;
– espellere gli immigrati illegali che abbiamo commesso reati e sospendere le immigrazioni da zone dove il terrorismo controlli il territorio;
– ridurre del 35% le tasse alla classe media, dal 35% al 15% per le imprese; rimpatriare i capitali all’estero (10% di tasse) ed elevare i prelievi fiscali sugli stratosferici guadagni finanziari;
– cancellare la legge che facilita l’off-shoring (la collocazione della produzione all’estero per approfittare del basso costo della manodopera, ma creando disoccupazione in patria);
– reperire mille miliardi in 10 anni per la manutenzione delle infrastrutture del Paese, sollecitando investimenti e creando lavoro.
Sono solo alcune delle proposte (da sottoporre al Congresso, ovviamente) avanzate da Trump ma, al di là del fatto che possano apparire utopistiche o puramente elettorali, ci consentono di comprendere la posizione assunta da Trump nel panorama economico Usa e, quindi, mondiale. Si tratta, come detto, di una posizione conservatrice e “isolazionista” – già portata avanti dagli Usa nell’Ottocento con la Dottrina Monroe e da alcuni presidenti del XX secolo, come Nixon e Reagan – che tende ad isolare ed ad opporre l’economia Usa a quella del mondo intero: ecco perché Trump si dichiara protezionista (invocando dazi a protezione delle merci prodotte internamente contro quelle provenienti dell’estero, soprattutto dalla Cina), contro tutti i Trattati commerciali internazionali – compresa la WTO (l’organizzazione mondiale del commercio) dalla quale minaccia di uscire -, favorevole alla Brexit, scettico anche verso la Nato per gli alti costi che il ruolo Usa comporta. Questa – e altre – proposte sono musica per il complesso produttivo Usa in progressiva decadenza e per i milioni di disoccupati che ne derivano, oltre che per una classe media al limite della povertà. Sono, invece, tossico puro per l’élite guerrafondaia ed imperialista che finora ha orientato la politica Usa nel senso di un neoliberismo globale e selvaggio nel solo interesse di multinazionali e grandi gruppi finanziari. Questa osservazione ci consente di passare al punto successivo.
2. L’élite guerrafondaia di cui sopra sarebbe stata perfettamente rappresentata, invece, da Hillary Clinton, al punto – come denuncia Paul Craig Roberts, economista, analista politico, ex viceministro di Reagan e collaboratore del Wall Street Journal – che i dati delle primarie che l’hanno portata a competere con Trump e vinte, dati alla mano, dal democratico Bernie Sanders, sono stati truccati a favore della candidata più utile al gruppo al potere. La Clinton è, infatti, “espressione degli oligarchi al potere e del complesso militare –industriale legato a Wall Street, della lobby israeliana, del business militare e del comparto energetico estrattivo” (Paul Craig Roberts, “Primarie truccate, le aveva vinte Sanders”, sul sito Libre – Associazione di idee). Seguendo la folle corsa imperialista dei suoi mandanti, la Clinton si preparava a rafforzare il clima di guerra fredda ricreato con la Russia, le irresponsabili sfide alla Cina, il pesante intervento in Medio Oriente (grave e pericolosa la sua promessa di uccidere Assad, non appena eletta presidente, conoscendo l’opposizione della Russia a questo proposito, come grave è stato il suo attivismo, da segretaria di Stato sotto Bush jr., per destabilizzare la Libia ed eliminare Gheddafi, creando lo scompiglio che sappiamo) e, insomma, ad appesantire il progetto Usa di recuperare a tutti i costi il controllo del mondo in un momento di evidente e crescente debolezza di fonte alla resistenza delle potenze emergenti (Cina e Russia, in particolare, con la loro idea di una moneta alternativa al dollaro per il commercio mondiale), al fallimento in Medio Oriente con lo smantellamento dell’Isis ad opera dell’intervento russo. Come stupirsi della forte preoccupazione dell’élite guerrafondaia di fronte ad un candidato che afferma di non volere problemi con Putin né con la Nato?
Rimane il fatto che questa élite ha continuato a pilotare la politica interna Usa (anche l’elezione della maggior parte dei presidenti è stata da loro condizionata) a vantaggio di pochi gruppi finanziari e multinazionali, orientandola a considerare il mondo intero come luogo da cui ricavare profitti enormi, attraverso la guerra, la ricostruzione, lo sfruttamento delle risorse altrui, l’eliminazione dei diritti dei popoli: tutto ciò a proprio favore e a detrimento anche del benessere del popolo americano: il quale, pare, giunto al limite della sopportazione, ha votato per un outsider, uno fuori dai grandi giochi e che gli promette, forse anche populisticamente, ciò di cui ha bisogno. Ma anche molti leader stranieri sperano che l’era Trump possa avere aspetti positivi. Ed eccoci al terzo punto.
3. Il primo ad avere espresso soddisfazione per la vittoria di Trump, nonché la speranza che i rapporti tra Russia e Usa possano tornare ad essere amichevoli, è Putin (anche in vista, come egli stesso dice, “della comune responsabilità nella gestione della sicurezza mondiale”). Il capo economista di Renaissace Capital (una banca d’investimento con sede a Mosca), Charles Robertson, afferma senza mezzi termini che “la Russia è il principale beneficiario dell’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti” (Antonella Scott, Il Sole-24 Ore, 9 novembre 2016). Il presidente russo non si nasconde le difficoltà di trattare con un personaggio, Trump, imprevedibile e contraddittorio (la volontà di annullare l’accordo nucleare con l’Iran e la minaccia di distruggere gli aerei russi che dovessero entrare in Siria, non facilita le cose) ma spera in un allentamento delle sanzioni UE imposte dagli Usa e nella comune visione di una efficace politica economica interna ed estera, contro il terrorismo (come risulta dal suo discorso del 1 dicembre 2016 (vedi Antonella Scott, “Putin tende la mano a Trump: insieme contro il terrorismo, Il Sole-24 Ore del 1/12/2016).
Anche il leader cinese Xi Jinping, a Lima per il summit della Cooperazione economica Asia-Pacifico, vede rosa per il futuro del suo Paese: l’annuncio di Trump di voler disimpegnare gli Usa da alcune grandi questioni internazionali sembra lasciare spazio ad un inserimento cinese e le azioni concrete non mancano, dalla ricostruzione della Libia con capitali cinesi, alla ricostruzione e controllo della Via della Seta, alla dislocazione di importanti aeroporti in zone strategiche del mondo e la prima base militare a Gibuti – davanti al Golfo di Aden, dove ne esistono anche una americana e una francese -, accesso anche commerciale per l’intera Africa.
L’affievolimento dell’interesse di Trump per la situazione UE, poi, preoccupa molti burocrati e leader europei: Merkel, Hollande, Schulz, ad esempio, vedono difficoltà nel proseguire la politica d’austerità finora imposta ai popoli europei (Beda Romano, “I leader UE propongono subito un vertice al neo-presidente Trump”, Il Sole-24 Ore, 9/11/2016); altri, come il capogruppo socialista al Parlamento europeo Gianni Pittella, ammette francamente che la politica deve cominciare a “riconnettersi con i perdenti della globalizzazione e ascoltare le loro ragioni” se non si vuole, come si augurano i partiti della destra europea, che anche i popoli europei si rivoltino contro la troika e i suoi ciechi esecutori. Proprio questo sembra essere uno dei più importanti segnali lanciati dalla Brexit e dalla strepitosa vittoria del NO in Italia. Speriamo di non sprecare la preziosa occasione per riprenderci la nostra sovranità. E veniamo, in chiusura, ai “segnali politici” annunciati in apertura.
4. Abbiamo delineato a grandi linee un quadro politico in cui si contrappongono il partito conservatore, o repubblicano, più attento all’economia reale del Paese, alla salvaguardia del tenore di vita degli americani, al rispetto delle tradizioni originali del popolo americano, così come presentati nella Costituzione del 1787, e il partito democratico, controllato dalle grandi lobby, dalle cosiddette Bank families (Rocklfeller, Morgan, Sachs, etc.), dalle multinazionali, e orientato, attraverso la disastrosa politica imperialistica che conosciamo, a soddisfare la loro insaziabile ricerca di profitti ad ogni costo (ambientale, civile, umano, culturale). Bene, proprio all’interno di questa parte politica, finora dominante, si manifestano le prime crepe. Il tracollo economico e politico statunitense è evidente, il mondo non ha ceduto agli attacchi americani ma sta, anzi, reagendo, sia militarmente che economicamente. Russia e, soprattutto, Cina si preparano a prendere il testimone. La politica mediorientale, dopo il fallimento in Irak, è sfuggita di mano, anche il nuovo nemico, il terrorismo – quello che, dopo il pericolo “rosso”, doveva giustificare le guerre preventive e gli attacchi alle libertà civili – si è rivelato l’ennesima creatura Usa, le alleanze anti-Usa sbocciano come funghi… In questo contesto, perfino il super falco Zbiniew Brzezinski ha rotto gli indugi dichiarando che “membri potenti dell’establishnent decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia Usa in tutto il Medio Oriente e in Asia” e che occorre utilizzare ciò che resta della potenza americana per affrontare “l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico del Mediorente” (Z. Brzezinski, “Verso un riallineamento globale”, The american interest, 6/9/2016). Il motivo per cui una parte consistente degli oligarchi guerrafondai sta avendo un ripensamento sta nella presa d’atto che la crescente ostilità alla sua politica aggressivamente espansiva degli Usa risieda proprio nei suoi metodi violenti e cinici: non sono i valori americani ad essere messi in discussione, come raccontano i media asserviti, ma la sua violenza senza scrupoli per fini meramente economici e di dominio incontrastato. L’escalation terroristica alla quale stiamo assistendo dimostrerebbe proprio la reazione di panico di una parte dell’establishment Usa per il rischio di perdere il potere. Hillary Clinton non ha compreso nulla di tutto questo e i rischi del conflitto atomico, sotto la sua presidenza, sarebbero aumentati in modo intollerabile. Ecco perché una parte dei suoi stessi mandanti ha finanziato anche la campagna di Trump: non è la prima volta (vedi il caso di Truman/ Roosevelt) che le bank families finanziano entrambi i candidati per “addomesticare” poi quello vincente.
E proprio qui sta il problema insito nella vittoria di Trump: a giudicare dalla squadra di governo scelta – composta dagli uomini più ricchi d’America e da qualche uomo della controparte – è lecito nutrire dubbi circa il mantenimento delle mirabolanti promesse fatte in campagna elettorale, ma l’uomo è un cane sciolto, imprevedibile, un “disobbediente” fin dall’età scolastica. Staremo a vedere.
Alleghiamo un’altra piccola indicazione bibliografica per chi volesse approfondire, avvertendo che uno di questi libri si trova solo in lingua francese.
Bibliografia
Giovanni Francesco Carpoeoro, Dalla Massoneria al terrorismo, Revoluzione Edizioni, 2016
Noam Chomsky, Terrorismo occidentale, Ponte alle Grazie, 2105
Anthony Summers, La vita segreta di J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI, Fabbri, 1993
Alain De Benoit, Aleksandr Dugin, Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, 2014
Carroll Quigley, Storia segreta dell’oligarchia anglo-americana, Le retour aux sources, 2015 (fr.)
W. Cleon Skousen, Il capitalista nudo, Armando1970