Voci della Memoria. Gli Artisti fuori posto portano in scena la Shoah
Alla vigilia della Giornata Internazionale della Memoria, è andato in scena nel teatro cagliaritano di Sant’Eulalia Voci della Memoria, ultimo lavoro degli Artisti Fuori Posto.
Gli Artisti Fuori Posto sono una compagnia che dal 2011 si occupa di teatro e di cinema, producendo spettacoli e audiovisivi destinati a cinema, televisione, pubblicità e social. Inoltre è un punto di riferimento per chiunque desideri formarsi in questi ambiti grazie alla loro ricca offerta formativa.
“Voci della Memoria” porta sul palco il dramma della Shoah grazie all’intensa recitazione di Piergiorgio Bittichesu, Stefania Chessa, Lara Farci, Angela Marotta, Cinzia Mura, la stessa regista Anna Murgia, Alessandro Redegoso, Paolo Salaris, Valeria Sanna e Chiara Tallarita. Grazie anche alle luci di Piero Murenu, all’audio di Filippo Salaris e ai costumi di Alessandra Lecis, lo spettacolo ha efficacemente rinnovato la memoria di ciò che fu l’Olocausto vissuto da milioni di ebrei nei campi di sterminio.
Al termine dello spettacolo abbiamo incontrato la regista Anna Murgia.
Voci della Memoria tratta di uno dei periodi più bui della nostra storia: com’è nata l’idea di questo spettacolo?
Era un’idea che avevo da parecchio tempo: oltre che dedicarmi al teatro, io sono un’insegnante e in tante lezioni ho trattato l’argomento coi miei alunni. Quello che volevo era rendere fruibile questa pagina della nostra storia anche a un pubblico teatrale, pubblico che può essere quello studentesco – perché vorremo portare lo spettacolo anche nelle scuole – così come quello più adulto e diversificato.
Il suo spettacolo non inventa alcuna storia, ma porta testimonianze dirette. Come si è approcciata a queste nell’adattarle al teatro?
La realtà raccontata da chi ha vissuto nei lager è stata il mezzo più idoneo per presentare le esperienze che da specifiche e individuali si fanno esperienza di tutti: dall’appello all’arrivo nei campi, sino alle mansioni estenuanti o assurde all’interno di essi. Ho quindi fatto una selezione mantenendo il contatto diretto e puro con le storie vere e i documenti utilizzati, senza manipolarli. Ciò che abbiamo fatto con lo spettacolo è stato comporre un collage di questi elementi, seguendo l’iter narrativo che dalle discriminazioni sociali portava poi al viaggio verso i campi di concentramento e alla vita, nonché alla morte, in questi luoghi.
Quali sono state le testimonianze e le fonti principali del vostro spettacolo?
Sicuramente è stato importante partire dall’origine di questa tragedia: il Mein Kampf di Hitler, le leggi razziali, i discorsi di Mussolini, essenziali per dare il giusto contesto alla storia delle vittime. La voce di Liliana Segre poi è stata fondamentale, anche in virtù del suo ruolo odierno nel nostro Paese, e una specifica sua frase che ho riportato nello spettacolo sottolinea le analogie tra ciò che lei ha vissuto con la Shoah e ciò che l’odio e la discriminazione fanno vivere ai tanti rifugiati di guerra dei nostri giorni.
La testimonianza di Primo Levi è però quella dominante: la sua opera, Se questo è un uomo, è stata fondamentale per trattare in modo artistico e poetico questo tema. L’onirica conclusione dello spettacolo è tratta in particolare da un passo riguardante gli incubi che per sempre accompagnano chi è riuscito a salvarsi dai campi. Ho voluto mostrare come per queste vittime non c’è veramente una liberazione totale da quell’esperienza perché la vita dopo il lager non sembra mai reale ma uno dei tanti sogni che rischia di essere interrotto dal comando straniero, dal comando di svegliarsi per un’altra implacabile giornata di prigionia e sfruttamento.
Poesia e teatro si fondono perfettamente nel suo spettacolo. Come il teatro contemporaneo riesce ad adempire oggi all’esigenza sempre più necessaria di rinnovare la Memoria?
Il teatro ha una marcia in più nel trattare la poesia e questi temi, perché offre l’opportunità di creare dei quadri visivi che spezzano e allo stesso tempo accompagnano le parole: ha il parlato, ma anche l’immagine. Ma soprattutto una magia che è per esempio diversa da quella del cinema perché il cinema propone magari un punto di vista su questo dramma storico – tante volte e con tante storie importanti – ma l’esperienza vitale del teatro riesce davvero a fare una summa corale e universale di queste narrazioni, rendendole eterne.
A tal proposito penso a un film come Il figlio di Saul di László Nemes, che tratta di un’esperienza particolare come quella dei Sonderkommando che anche voi avete voluto raccontare.
Il principio di questo spettacolo è che ciascuno di noi è uno dei tanti, quindi anche nella scelta di riportare una testimonianza come quella dei Sonderkommando c’era la volontà di creare una continuità con le altre voci: ognuno di noi era tutti coloro che sono stati nei lager e che hanno vissuto questa tragedia, chi si è salvato così come chi nelle camere a gas ha incontrato la morte, così come chi quelle camere doveva svuotarle.
Oltre che regista lei è anche attrice nello spettacolo: quali sono state per voi le difficoltà, ma soprattutto le opportunità drammaturgiche nel prepararlo?
Per noi attori e attrici l’immedesimazione è stata molto sentita, già durante le prove. Le lacrime facilmente sforano dal campo recitativo a quello reale quando si tratta di queste testimonianze: è stato forte, è stato pesante. Abbiamo lavorato per trasmettere al pubblico questa storia in tutte le sue dolorose sfaccettature. Tutti poi sono stati eccezionali, mi hanno dato fiducia e abbiamo lavorato in un clima di piacevole collaborazione, con impegno totale. Sono assolutamente soddisfatta dello spettacolo che abbiamo composto e del messaggio che siamo riusciti a trasmettere.
Di che messaggio si tratta?
Il messaggio è che non si può dimenticare nessuna di queste esperienze perché tutte son state l’esperienza unica di un dramma della nostra storia che non deve ripetersi. A tal fine ho inserito nello spettacolo un momento relazionale col pubblico in cui gli attori consegnano ad alcuni spettatori la circolare che diede il via alle deportazioni: un momento di contatto diretto per dire che quel documento è reale, che quell’esperienza è stata vissuta da tanti, troppi, e che non si può dimenticare.
Voci della Memoria è riuscito a commuovere il pubblico, ricordando a tutti che dietro la storia studiata sui libri ci furono le voci di milioni di vittime che oggi ancora chiedono che mai più si ripetano gli errori del passato. Questa è la forza del teatro, mezzo di comunicazione che ancora una volta porta sul palco quel che non c’è più ma che soprattutto non deve mai più esserci.
Marta Melis